giovedì 21 ottobre 2010

Dalla Campania agli inceneritori e un'ipotesi inquietante su Seveso.


di Edorardo Montolli - 17 settembre 2010
Lo stivale italiano dei veleni svelato dal super-consulente delle procure.

In ufficio ci va a bordo di un kajak perennemente ormeggiato tra i canneti che dalla riva degradano lentamente fino al giardino di casa. L’uomo che scende e deposita il remo ha una barba incolta bianca e il cappello alla Crocodile Dundee. Ha scelto di vivere in un suggestivo scorcio del Lago di Mantova che gli allontana i ricordi olezzanti di discariche abusive, rifiuti tossici e industrie chimiche fuorilegge, ossia tutto ciò che nel suo lavoro affronta quotidianamente. Si chiama Paolo Rabitti, 60 anni, due lauree – ingegneria e urbanistica – innumerevoli pubblicazioni, docenze e ricerche alle spalle. Ai suoi studi si affidano i Comuni alle prese con la Tav o i comitati di cittadini preoccupati da inceneritori e aziende chimiche. Gente con cui spesso collabora gratuitamente, così, per coscienza civica, dice.
Ma il suo nome appare soprattutto nelle più importanti inchieste ambientali, chiamato come consulente dalle Procure di mezza Italia. Dai tempi di Felice Casson per il petrolchimico di Porto Marghera, ai pm di Brescia, Ferrara, Rovigo o Grosseto, giusto per citarne alcune: e sempre per smaltimento di materiali tossici, inquinamento da emissioni di Pcb dalle acciaierie, acque devastate da scarichi illeciti. Come per il Lago Maggiore: la sua perizia per il tribunale di Torino è valsa la condanna civile per 1,6 miliardi di euro alla Syndyal, responsabile dello sversamento nelle acque di quantità industriali di Ddt. «Se ne accorsero gli svizzeri, poi fu vietata la pesca. E ancora oggi ci sono sul fondale quantità enormi sedimenti inquinanti».
I magistrati, alle prese con un disastro ambientale dietro l’altro, per capirci qualcosa suonano al suo campanello sempre più spesso. E non poteva non essere così anche per il caso dei rifiuti in Campania: trenta ore di testimonianza nell’aula bunker, un vero record, per spiegare che «con la gestione dei rifiuti la camorra non c’entra proprio nulla». E che per contro c’entravano istituzioni e multinazionali, per le quali è diventato una sorta di incubo, un cave hominem da cui stare alla larga visto che ogni volta che ci incappano finisce a condanne e risarcimenti per i disastri commessi. «In effetti tentano spesso di etichettarmi per un ambientalista, un’etichetta comoda se si devono nascondere gigantesche magagne».
Per quelle che ha scovato in diverse città sugli affari d’oro del pattume, è stato appena nominato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Un incarico, l’ennesimo, che svolge gratis. E che probabilmente avrà il suo fulcro proprio in ciò che accadde nell’area campana. Intorno a un tavolo in legno, sotto al pergolato, l’ingegnere inizia a ricostruirne la storia, attorniato dalla moglie Gloria Costani, di professione medico, da Smilla e Black, i suoi due cani e da un numero imprecisato di gatti.
«Lì la situazione era già piuttosto compromessa, perché per decenni le industrie del centro-nord vi avevano smaltito illegalmente rifiuti pericolosi, interrandoli, sversandoli nelle acque o direttamente nelle falde. Questo per delineare il quadro. Quanto allo scandalo dei rifiuti urbani, c’è un processo per truffa ai danni dello Stato e falso alla Fibe-Impregilo. In sostanza doveva gestire i rifiuti per l’intera regione, separando carta e plastica dalla componente organica. La prima sarebbe servita per produrre combustibile da bruciare negli inceneritori. La seconda doveva essere inertizzata diventando una specie di terriccio da fiori».

Invece?

«Di fatto non veniva prodotto combustibile, né – tantomeno – il terriccio. E la regione si è trovata alle prese con circa dieci milioni di tonnellate di cosiddette “ecoballe”, in barba al Commissariato ai rifiuti che avrebbe dovuto controllare».

Rifiuti uguale camorra, dicono.

«Guardi, la camorra forse è intervenuta nel business dei trasporti dei rifiuti dagli impianti alle discariche, in qualche subappalto fatto da Fibe-Impregilo che peraltro non poteva subappaltare. E forse, ma forse, la camorra si accaparrava i terreni in cui Impregilo aveva deciso di costruire le discariche. Ma di sicuro, con la gestione dei rifiuti, la camorra non c’entra assolutamente nulla, contrariamente a quanto si lascia intendere. La responsabilità è di controllori e controllati. Ed era impossibile non vedere che nelle discariche c’era una situazione da Terzo mondo, che ancora adesso nessuno racconta».

Tipo?

«Progettate per accogliere materiale inerte, e cioè il terriccio, venivano invece riempite con rifiuti organici addirittura freschi che andavano rapidamente in putrefazione e producevano enormi quantità di liquido marcio (il cosiddetto percolato) e di gas. Sicché, oltre a inquinare, puzzavano da morire. Nemmeno le coprivano tutte le sere, né tentavano di limitare almeno le quantità di percolato o di captare il gas. Risultato, il percolato tracimava, l’odore era intollerabile. E per attenuarlo, a qualcuno è venuta l’idea di piazzare spruzzini di profumo sulle recinzioni».

Sta scherzando?

«Giuro. Ho qui una foto».

Con l’intervento del Governo Berlusconi i rifiuti sono spariti d’incanto, in una manciata di giorni. E tutti si chiedono ancora oggi come sia stato possibile.

«Beh, io commento solo ciò che ho visto. E cioè il sito di Ferrandelle: hanno accatastato circa un milione di tonnellate di rifiuti in piazzole preparate in fretta e furia su un terreno quasi paludoso e senza alcun tipo di copertura. Non mi pare esattamente la panacea che hanno dipinto».

Resta il fatto che in alcune regioni del Sud l’emergenza si ripresenta periodicamente.

«Perché per funzionare il ciclo dei rifiuti necessita di amministrazioni che amministrino, controllori che controllino e aziende che facciano quello per cui sono pagate. Ma se, tanto per fare un esempio ipotetico, il politico di turno decide di mandare tutto in discarica, affida la localizzazione a un emissario della camorra, il progetto al cognato che non ne ha mai vista una, la raccolta dei rifiuti a un’azienda creata solo per assumere personale, lo smaltimento a un’altra azienda che ha interessi nei rifiuti pericolosi e la discarica a chi ci fa andar dentro di tutto e se ne infischia della corretta gestione, allora, come dire, se succede tutto questo è molto probabile che si verifichino disastri».

Per molti la soluzione starebbe nei termovalorizzatori.

«Mah, termovalorizzatore è un termine eufemistico. Secondo le leggi nazionali ed europee si deve parlare di “inceneritori con recupero di energia”. Certamente sono impianti assai vantaggiosi economicamente ed è per questo che c’è la corsa a costruirli. Peccato che in Italia l’energia prodotta incenerendo i rifiuti sia stata fatta passare alla pari di quella proveniente dal sole e dal vento. E veniva così adeguatamente sovvenzionata finché la Comunità europea ci ha tirato le orecchie, perché è evidente che non si tratta della stessa cosa. E vorrei confutare un’altra colossale bugia: non è vero che gli inceneritori non inquinino. Anche ammesso che le emissioni rientrino nei limiti di legge, moltiplicando le concentrazioni a metro cubo degli inquinanti per il numero di metri cubi di gas che escono dai camini si trovano quantità molto rilevanti. Senza contare i delinquenti che taroccano il software di controllo per simulare emissioni inferiori a quelle reali. Alcuni casi li ho constatati di persona».

E allora, la soluzione?

«Il sistema migliore è, ovviamente, non produrli».

Facile.

«Scusi, perché se compro una fetta di formaggio al supermercato mi devo portare a casa altrettanta plastica? Costa poco produrla, ma molto smaltirla, sia in termini economici che ambientali. Oltre a ridurre bisogna cercare di recuperare e riusare, visto che ogni cosa che finisce in discarica o viene incenerita provoca un impatto ambientale».

Un po’ utopistico.

«Nient’affatto. A Treviso raggiungono l’80 per cento, ripeto 80 per cento di raccolta differenziata come media annuale. Così, visto che non serve l’inceneritore per rifiuti urbani, gli industriali hanno pensato bene di chiedere di costruirne due per rifiuti speciali. E sta ovviamente succedendo un putiferio, perché la gente si sente presa in giro».

Una sensazione che si avverte spesso. Lei si è occupato del cloruro di vinile di Porto Marghera, uno dei più grandi scandali italiani, che vedeva al centro il colosso industriale Montedison.

«Già. Scoppiò tutto perché un operaio, Gabriele Bortolozzo, volle capire il motivo per cui gli amici che lavoravano con lui nel reparto in cui si produceva polivinilcloruro (Pvc) a partire dal cloruro di vinile (Cvm) fossero tutti morti di tumore. Fu grazie alla sua personale ricerca inviata alla Procura di Venezia che iniziò l’indagine di Felice Casson. Tra le carte dell’inchiesta sul Petrolchimico di Brindisi trovai un documento del 1974 (che poi depositai agli atti del processo di Marghera) in cui un dirigente di Montedison affermava che le aziende sapevano che il Cvm fosse cancerogeno molto prima della scoperta ufficiale del 1973, ma che l’avevano tenuto segreto. E in un secondo documento del 1977 (che mi fu anonimamente imbucato nella cassetta della posta) un altro dirigente Montedison scrisse che non bisognava fare le manutenzioni agli impianti. E questi sono solo due esempi, per dare l’idea di una vicenda incredibile».

Pare incredibile anche ciò che è accaduto con lo sversamento in mare del petrolio della BP. Barack Obama l’ha paragonato all’11 settembre...

«È certamente un disastro ambientale di proporzioni terrificanti, ma è anche la dimostrazione che l’estrazione del petrolio comincia a essere troppo difficile. Le conseguenza sull’ambiente non sono per ora compiutamente valutabili. Si pensa che gli effetti dureranno molte decine di anni. D’altra parte, il caso americano ha fatto riemergere anche la questione dello sversamento nel delta del Niger che da decenni, nel silenzio generale, sta devastando l’ecosistema. O meglio: negli anni Ottanta il poeta Ken Saro-Wiwa si fece portavoce delle rivendicazioni della popolazione. Ma finì impiccato».

Anche lei è tra quelli che sostengono la necessità di passare alle energie rinnovabili?

«Credo che sfruttarle sia un dovere morale, oltre che una necessità contingente. Se, invece di riempire le tasche dei padroni degli inceneritori con i contributi destinati alle energie rinnovabili, i soldi fossero stati usati per incentivare la ricerca e l’installazione degli impianti il nostro Paese sarebbe sicuramente all’avanguardia».

Lei non si fida del nucleare?
«Il ministro che più spingeva per le centrali nucleari era Scajola. Veda lei».

È degli incidenti che tutti hanno paura. In fondo qui siamo nella terra della diossina di Seveso, dell’Icmesa dei disinfettanti... Seveso, la Chernobyl italiana…
«Posso raccontarle a questo proposito una storia cui lavoro da molto tempo? Sa, ci sto scrivendo un libro».

Prego
.
«A seguito del disastro del 1976 all’Icmesa, la commissione della Regione Lombardia stilò un rapporto secondo il quale “sembra” che parte delle 1.600 tonnellate di materiale asportato dalla fabbrica subito dopo il disastro venne smaltita in un inceneritore del Mare del Nord, inceneritore che però non fu indicato. Scrisse proprio così, “sembra”. Il resto del materiale rimasto nel reattore, e cioè 41 fusti di diossina e triclorofenolo, fu affidato a tale Bernard Paringaux, persona che si disse legata ai servizi segreti e che avrebbe dovuto smaltirli in una discarica controllata in Francia. Paringaux li mostrò in tv, solo che i fusti erano più piccoli di diametro rispetto a quelli che erano partiti. Ne nacque un giallo che si risolse solo molto tempo più tardi, quando fu spiegato che erano stati smaltiti probabilmente vicino alle ex miniere di sale della Ddr. Probabilmente. Di fatto, nessuno seppe mai nemmeno in questo caso né dove, né se a essere effettivamente smaltiti furono i fusti partiti dalla sede dell’Icmesa. Perché la verità è questa: che nessuno sa dove siano finiti. E questo è il primo punto. Il secondo è che la diossina provoca il sarcoma, un tumore il cui tempo di latenza si aggira intorno ai dieci anni».

E quindi?

«Lei lo sapeva che Mantova è la città con la più elevata frequenza di sarcomi in Italia rispetto alle popolazioni della zona industriale?».

Non seguo il paragone.

«Ce ne accorgemmo io e mia moglie che, essendo medico di base, notò che buona parte di questi tumori colpivano pazienti che abitavano vicino al vecchio inceneritore della città. Che oggi è vecchio, ma che nel 1980 era stato inaugurato come il più moderno inceneritore per rifiuti tossico-nocivi d’Europa. Scrivemmo un report. E in effetti l’Istituto superiore della Sanità promosse uno studio approfondito, constatando che chi abitava vicino all’inceneritore di Mantova aveva una probabilità ben trenta volte superiore al resto della città di sviluppare il sarcoma. Ed è una circostanza stranissima, perché in nessun altro luogo dove è presente un inceneritore per tossico-nocivi è mai stato evidenziato un aumento dei sarcomi. Circostanza della quale infatti sono stato chiamato a relazionare poco tempo fa alla Gordon and Mary Cain Foundation a Philadelphia».

La questione comincia a farsi inquietante.
«All’epoca di Seveso non esistevano strumenti per capire quanta diossina potesse essere entrata nel sangue della popolazione. Ne furono congelati alcuni campioni che vennero analizzati anni più tardi dalla Cdc (Center for Diseases Control) di Atlanta, praticamente l’Istituto superiore della sanità degli Stati Uniti. Tempo dopo, per sintetizzare, fu chiesto di analizzare il sangue dei mantovani. La clinica del lavoro di Milano stilò un rapporto in cui concludeva che il livello di diossina nel loro sangue a campione era medio-basso. Invece non era vero.
A seguito di un’interrogazione parlamentare di Casson, rivide drasticamente il proprio parere e in un cosiddetto “consensus report” assieme all’Istituto Superiore di Sanità sostenne che il livello di diossina era medio-alto. Ecco, il problema è questo. Che non è possibile, o almeno non c’è una spiegazione scientifica, che lo giustifichi. Visto che qui il polo chimico è chiuso da vent’anni. Come del resto l’inceneritore, sigillato nel lontano 1992. La domanda è: da dove arrivava la diossina che provoca i sarcomi nel sangue dei mantovani?».

Sta dicendo che i fusti di Seveso vennero smaltiti da queste parti, a Mantova?

«No. Sto facendo alcune constatazioni scientifiche su coincidenze attualmente senza risposte. La prima è che Mantova ha inspiegabilmente questa elevata concentrazione di sarcomi. La seconda è che chi abita vicino all’inceneritore ormai fermo da diciotto anni aveva inspiegabilmente probabilità trenta volte più alte di ammalarsi di sarcoma rispetto al resto della popolazione di Mantova, quasi che lì si fosse bruciata diossina. La terza è che in nessun’altra città che abbia avuto un inceneritore per rifiuti tossico-nocivi c’è mai stata correlazione statistica così diretta con i sarcomi. La quarta è l’assolutamente inspiegabile livello medio-alto di diossina nel sangue dei mantovani. E la quinta è che – purtroppo – nessuno sa che fine abbiano fatto i 41 fusti e gli altri rifiuti di Seveso: quelli che la stessa commissione della Regione Lombardia scrisse soltanto che “sembra” siano stati smaltiti nel Mare del Nord, e la cui sorte è dunque avvolta nel mistero. E poi c’è un sesto elemento...».

Cioè?

«I sarcomi a Mantova hanno iniziato a manifestarsi alla fine degli anni Ottanta, con i consueti dieci anni di latenza. E cioè più o meno dieci anni dopo l’incidente dell’Icmesa, a 150 chilometri da qui. Lo ricordo bene perché venni ad abitare in questa zona alla fine degli anni Settanta. E osservai nel mio giardino un fenomeno che non avevo mai visto prima e che mi colpì profondamente, anche perché non lo rividi più».

Quale?

«Era il mese di maggio. E dagli alberi caddero le foglie».

Tratto da: IL maschile de Il Sole 24 ore

martedì 12 ottobre 2010

Pianura, non c’è disastro ambientale Il pm chiede l’archiviazione: manca il nesso fra veleni e malattie

di Dario del Porto
Repubblica Napoli 12 ottobre 2010

NEGLI anni ’80 e ‘90 e comunque fino al 1995 è stato scaricato illecitamente nella discarica ex Difrabi di Pianura «un immenso quantitativo di rifiuti tossici». Nonostante questo elemento che risulta «documentalmente», le indagini del Noe coordinato dal pm Stefania Buda non consentono di ipotizzare, a fronte di questa acclarata «situazione di criticità della discarica», il reato di disastro ambientale. Allo stesso modo, non è stato possibile raccogliere dati sufficienti per valutare in concreto se e in che misura l’esposizione ai veleni scaricati nell’area abbia determinato conseguenze sulla salute dei cittadini.
In mancanza di elementi ritenuti utili a sostenere l’accusa in un eventuale giudizio, il pm Buda, titolare della complessa e articolata inchiesta condotta in questi mesi, ha pertanto chiesto l’archiviazione del procedimento. Il fascicolo era stato aperto per reati fra i quali omicidio colposo ed epidemia colposa a seguito dell’esposto presentato in Procura da alcuni residenti nei pressi della discarica. Contro la richiesta di archiviazione è stata presentata opposizione, la parola passa dunque al giudice AlessandroDeciderà il gup a novembre. Gli atti al pool Ecologia: gestione di rifiuti “non autorizzata”Buccino Grimaldi che ha fissato l’udienza in camera di consiglio prevista dalla legge per il 2 novembre prossimo.Nel corso delle indagini, su disposizione del pm Buda, erano state acquisite le cartelle cliniche di residenti ed ex lavoratori della discarica oltre a dati estratti dall’istituto per i tumori e da altre strutture ospedaliere. Gli esperti nominati dalla Procura non hanno però potuto confrontare questi dati con altri, risultati indisponibili, riguardanti ad esempio il trend specifico delle malattie nella zona e quelli rilevati anche in soggetti sani che ancora oggi risiedono nei pressi della discarica. Questo ha impedito di ricostruire quel quadro «concreto e specifico» della situazione senza il quale non è possibile ipotizzare un nesso tra la situazione ambientale dell’area che circonda l’invaso di Pianura e la diffusione di gravi malattie tumorali sulla popolazione.Sul tavolo del gup ci sono adesso tre possibili soluzioni: l’archiviazione del caso, l’indicazione al pubblico ministero di nuove indagini oppure la richiesta di formulazione dei capi d’imputazione. Ma al di là di quelle che saranno le decisioni del giudice, l’inchiesta non è finita ma anzi prosegue lungo un altro filone. Vanno infatti avanti, e saranno coordinate dal pool Ecologia della Procura, le indagini sui reati ambientali nell’area della discarica ex Difrabi ritenuti «tuttora perduranti» dagli inquirenti. Il pm Buda ha stralciato questo capitolo del procedimento, che conta quattro indagati e configura una presunta gestione non autorizzata di rifiuti, e ha trasmesso gli atti alla sezione guidata dal procuratore aggiunto Aldo De Chiara, competente per i procedimenti su questa materia. Dagli accertamenti tecnici è emerso che vari strati della discarica sono privi di impermeabilizzazione,inoltre si registra ancora la fuo- riuscita di biogas sulla quale, ad avviso del pm Buda, è necessaria la valutazione della sezione specializzata nelle violazioni ambientali. Basti pensare che durante le operazioni di carotaggio effettuate da tecnici del ministero dell’Ambiente d’intesa con la Procura, le esalazioni di biogas hanno determinato addirittura un principio di incendio. Il 21 gennaio 2008 la discarica era stata sequestrata per effettuare gli accertamenti tecnici imposti dall’indagine. Ora il pool Ecologia dovrà riesaminare gli atti e verificare la sussistenza dei reati originariamente ipotizzati.

Solofra, sequestrato impianto di compostaggio di un azienda

Aritocolo tratto da Irpiniaoggi.it
Sabato 09 Ottobre

SOLOFRA - Nell’ambito dei servizi finalizzati all’accertamento dei reati in materia ambientale, i militari della Stazione Carabinieri di Solofra, con la collaborazione dei Carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di Salerno, hanno ispezionato un impianto di compostaggio, di una società che si occupa del recupero di rifiuti speciali non pericolosi, situata a Solofra, nella zona industriale, e gestita da un 37enne imprenditore avellinese.
Nel corso degli accertamenti condotti, i militari dell’Arma hanno potuto costatare che l’azienda era sprovvista della prescritta e preventiva autorizzazione alle emissioni in atmosfera. Per tale motivo i carabinieri hanno proceduto al sequestro preventivo dell’impianto. L’amministratore unico dell’azienda, inoltre, è stato deferito in stato di libertà per la violazione di alcuni articoli del Decreto legislativo nr. 152 del 2006 (Norme in materia ambientale).

Discarica di Maruzzella, Arena: a breve partiranno i nuovi lotti

articolo di Pietro Falco
11 ottobre 2010

Per l’assessore all’Ambiente la provincia diventerà autosufficiente con le ultime realizzazioni


CASERTA — Il 5 ottobre abbiamo completato il lotto 6 della discarica di Maruzzella 3, che ha una capienza di 180 mila metri cubi e ci darà respiro per almeno 6 mesi. Oggi, lunedì firmerò con il Consorzio Sa 2 il contratto per i lotti 7 e 8, capaci di accogliere altri 300 mila metri cubi: ci verranno consegnati entro marzo 2011. E così potremo dedicarci con la massima tranquillità alla realizzazione del nostro piano per rendere la provincia di Caserta autosufficiente in materia di rifiuti solidi urbani». Il piano a cui fa riferimento l’assessore provinciale all’Ecologia, Umberto Arena, è quello approvato dalla giunta lo scorso 20 settembre e poi ratificato dal presidente Domenico Zinzi dieci giorni dopo. «L’obiettivo che ci siamo posti - spiega Arena — è quello di una gestione realmente sostenibile e after-care free, cioè che tutti i trattamenti non comportino problemi per le future generazioni. Ma la precondizione è di raggiungere almeno il 50% di raccolta differenziata entro il 31 dicembre 2011: e al momento siamo ad una media del 28-30%. Il riciclo e recupero di materiali, infatti, sono imprescindibili per migliorare considerevolmente l’intero sistema di gestione».
La pianificazione mira innanzitutto a una drastica riduzione dei volumi smaltiti in discarica: vi finiranno solo 80 mila tonnellate, cioè il 17% di quanto avviene oggi. «Per la frazione organica umida — sottolinea l’assessore — è previsto il trattamento in moderni impianti di digestione anaerobica, per ottenerne la trasformazione in biogas per la produzione di calore ed energia elettrica, e inmateriale stabilizzato utilizzabile come compost ammendante. Ne abbiamo individuati tre, in grado di lavorare complessivamente 100 mila tonnellate all’anno. E uno sarà sicuramente allocato a San Tammaro modificando l’impianto di compostaggio in via di realizzazione. Dal punto di vista economico i Comuni ne trarranno enorme beneficio, perché i costi di gestione saranno quasi dimezzati».
La cosiddetta frazione secca residuale, calcolata in 250 mila tonnellate annue, è destinata invece al trattamento termico: «Circa 150 mila — rivela Arena— dovrebbero essere distribuite nei tre impianti regionali. Per la parte rimanente è prevista la realizzazione di un piccolo termovalorizzatore di concezione avanzata».


lunedì 11 ottobre 2010

Termovalorizzatore Acerra la Procura apre un’inchiesta

da Repubblica.it del 8/10/2010 di Patrizia Capua La Procura di Napoli ha aperto un’inchiesta sul termovalorizzatore di Acerra. Il procuratore Giovandomenico Lepore e i pm Federico Bisceglia e Maurizio De Marco hanno delegato i carabinieri del Noe a eseguire verifiche sull’impianto, accertando in particolare se le sue caratteristiche corrispondano a quelle del bando di gara, sulle emissioni, sulla qualità e la quantità dei rifiuti bruciati. La competenza territoriale su Acerra non è della Procura di Napoli, ma in questo caso si è fatto riferimento alla norma sulla Procura regionale contenuta nel “decreto Berlusconi” del 2008.L’inchiesta infatti è stata avviata dopo due denunce – una del Comitato civico per Acerra, l’altra dell’ex senatore di Rifondazione Tommaso Sodano – protocollate nel 2009, quando esisteva ancora la “superprocura”, e finora mai esaminate.

Il sindaco di Acerra Tommaso Espo

iesto di

sito ha ch essere ricevuto lunedì dal procuratore di Nola, Paolo Mancuso per sapere come stanno le cose. “Queste notizie – dice il primo cittadino – gettano allarme e preoccupazione. Una volta che saranno verificate, adotteremo tutte le misure necessarie, sapendo bene che l’intera area dell’inceneritore è considerata sito strategico nazionale e per questo tenuta sotto stretto controllo anche dalle autorità militari. Io sono stato ricevuto – prosegue il sindaco Esposito – mercoledì mattina dalla struttura del commissariato per l’emergenza rifiuti a Roma e mi hanno dato dati che sono tranquillizzanti. Nonostante questo farò partire l’osservatorio ambientale del Comune, affinché i nostri esperti possano verificare la concordanza delle notizie e darci la possibilità di agire con senso di responsabilità”.

L’inceneritore sta funzionando ad una linea, le altre due sono ferme da mesi. “Ci hanno illustrato un piano di manutenzione dell’impianto – continua il sindaco – che andrà in vigore dopo il mese di giugno 2011. Il Comune ha chiesto tutte le garanzie dell’Aia, Autorizzazione integrata ambientale, prescrizioni complete tra cui il monitoraggio continuo del mercurio, ma allo stato attuale questo impianto non è ancora attivato e sarà pronto alla fine del 2010″.

Nelle scorse settimane Sodano era già stato ascoltato dai pm, ai quali aveva fornito chiarimenti sulla denuncia del giugno 2009. Oggi consegnerà un dossier per integrare le presunte carenze già segnalate allora. “È curioso che la denuncia sia rimasta nel cassetto per un anno – commenta Sodano – il primo giugno avevo fatto la richiesta di sequestro dell’impianto perché non erano rispettate le prescrizioni”. La prossima settimana, intanto, il procuratore Lepore e i pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo, titolari delle tre inchieste napoletane sui presunti illeciti nello smaltimento dei rifiuti e nei collaudi degli impianti per la produzione di cdr, saranno ascoltati dalla commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti.

Il termovalorizzatore non funziona a pieno regime, in questo momento è attiva solo una delle tre linee di lavoro, la prima. La linea 2, ferma dal 7 settembre, dovrebbe riprendere per fine ottobre, per la 3 invece, ferma dal 17 agosto, appuntamento al 20 dicembre. Anche la 1 è stata ferma fra maggio e luglio. L’impianto, costruito dalla Fibe, è passato alla A2A di Brescia che qui è diventata “Partenope 2″ e nel 2012 dovrebbe essere acquistato dalla Regione o preso in carico dal governo stesso.

Sodano insiste. Nd, dati non disponibili, è la sigla che ricorre sul sito ufficiale dell’Arpac nelle rilevazioni quotidiane sull’attività del termovalorizzatore di Acerra. Sigla inquietante se ripetuta troppe volte nel corso di un anno. L’impianto, che sulla carta ha liberato almeno in parte Napoli dall’incubo della spazzatura, funziona? Che cosa esce dal camino? Ora toccherà alla magistratura scoprirlo.

Utility, patto a tre di non aggressione Entro il 2012 la quota di controllo dei soggetti pubblici in queste attività dovrà scendere al 30%, altrimenti

tratto da "La Repubblica"

di LUCA PAGNI


Sono pronte. Sia per aggiudicarsi le gare, non appena verranno bandite. Sia per presentarsi come partner industriali, non appena saranno aperti i capitali delle società. In ogni caso, sono destinate a diventare i nuovi campioni nazionali in settori di primo piano come la gestione delle acque o lo smaltimento dei rifiuti. Ma anche a competere alla pari con i colossi stranieri nel business dell’energia e del gas.

Per A2a, Iren ed Hera, le tre principali utility a controllo pubblico il 2011 si presenta come un anno di grandi opportunità. Vuoi perché hanno completato il percorso di alleanze sia con altre utility sia con partner finanziari vuoi perché il legislatore, con un intervento che molti operatori hanno giudicato come una forzatura, costringerà le aziende pubbliche ad aprire il capitale a partner industriali.

L’opportunità è rappresentata dal cosiddetto decreto Ronchi, il provvedimento che nelle intenzioni del governo di centrodestra dovrebbe aprire ai privati la gestione dei servizi pubblici locali. Il decreto prevede che le utility quotate possano mantenere le concessioni solo se gli azionisti pubblici scenderanno al 40% del capitale entro il 2011 e al 30% entro il 2012. Il che significa oltre 2 miliardi di euro di azioni messe sul mercato. Tutte le altre municipalizzate potranno mantenere le concessioni solo se la componente pubblica scenderà almeno al 40%, oppure saranno costrette a mettere i servizi in gara.

Questo sulla carta. Con grandi mugugni dei comuni azionisti che hanno vissuto la legge come l’ennesimo favore alle lobby degli imprenditori interessati a entrare nel settore pubblico delle acque, dei rifiuti e del trasporto pubblico (gas, elettricità e trasporto ferroviario locale sono ambiti esclusi dal legislatore). Invece, la Ronchi a detta degli esperti potrebbe favorire quelle società che, secondo la legge, sono società di diritto privato e persino quotate in Borsa, ma che dal punto di vista della proprietà sono controllate dai grandi Comuni. Con i sindaci che finiranno per ritrovarsi nell’elenco dei principali imprenditori italiani.

Non solo. L’opportunità che la Ronchi concede alle utility potrebbe anche essere finanziaria come spiega Lorenzo Parola, responsabile del dipartimento energy dello studio legale Dewey & LeBoeuf: «Le società quotate che vedranno scendere al 40 e poi al 30% la quota di partecipazione pubblica troveranno i fondi necessari da reinvestire nelle gare per l’affidamento dei servizi o per comprare quote di altre società pubbliche. Inoltre, siccome la legge dice che va privilegiata nell’offerta la qualità del servizio rispetto all’offerta economica, le utility sono in grado di mettere a frutto tutta l’esperienza e il knowhow accumulati in questi anni».

Ma non si tratta solo di sfruttare le possibilità offerte dal decreto Ronchi. Perché ci sono già tre ex municipalizzate che, anticipando i tempi e a colpi di faticose alleanze, sono in pole position per giocare un ruolo di primo piano a livello industriale in tre settori tra loro non concorrenziali. A2a, l’utility nata dalla fusione tra Aem Milano e Asm Brescia, è diventato il nuovo polo di riferimento nell’energia e il gas. Iren, ultima arrivata grazie alla fusione tra Iride (Genova e Torino) ed Enia (Piacenza, Parma e Reggio) è diventato il secondo polo italiano nella gestione di reti idriche e acquedotti. E, infine, Hera (Bologna, Modena, Ravenna e qualche decina di comuni emilanoromagnoli) è destinata a crescere nella gestione dei rifiuti e nella produzione di energia elettrica dai termovalorizzatori.

Un altro punto di contatto tra le tre utility del centronord è il ricorso ad alleanze finanziarie per crescere. Pioniere in questo campo sono state Aem Milano, Aem Torino e Asm Brescia che ancora prima di fondersi hanno aperto le porte alle banche per aggiudicarsi le centrali ex Enel che l’Antitrust ha fatto mettere in gara per aprire la concorrenza nel settore elettrico. L’alleanza con il capitale finanziario ha permesso loro di disporre di capacità elettrica da vendere ai clienti dei grandi comuni, migliorando i margini e portando a casa decine di milioni di utili ogni anno. E siccome la Ronchi non mette in gara i servizi di elettricità e gas, A2a ha iniziato a battere altre strade. Come dimostra l’affidamento al gruppo lombardo del termovalorizzatore di Acerra, impianto cardine per l’emergenza rifiuti in Campania. La strada delle alleanze finanziarie per crescere è stata seguita anche dagli altri. L’ultima della serie è stata Hera. La società guidata da Tomaso Tommasi ha individuato nel ciclo dei rifiuti il business in cui diventare un campione nazionale. E per trovare nuove risorse per i suoi investimenti ha individuato un partner andandoselo a prendere a Londra. La scelta è caduta sul fondo specializzato in infrastrutture Eiser che ha rilevato il 20% di Herambiente per 105 milioni. Una scelta dettata anche dal fatto che Eiser possiede già il 33% di uno dei principali operatori di waste management in Gran Bretagna (Cory Environmental). Hera può mettere in campo l’esperienza accumulata in tutta la filiera dei rifiuti: dalla realizzazione dei termovalorizzatori alla gestione di discariche e impianti di compostaggio. E secondo alcuni analisti sarebbe già pronta a partecipare a gare anche in giro per l’Europa. Stesso discorso per Iren. L’alleato in questo caso è italiano e risponde al nome di F2i, il fondo infrastrutturale presieduto dall’ex numero uno di Autostrade, Vito Gamberale. Assieme hanno dato vita a una società che avrà come socio di maggioranza Iren, con il 65% delle quote di capitale e per il restante 35% il fondo F2i. Il primo passo sarà quello di crescere nelle regioni in cui Iren è già predominante, ma l’ambizione è quella di superare in breve tempo il leader italiano, la romana Acea e respingere la concorrenza dei colossi francesi Suez e Veolia che hanno già i loro avamposti nella penisola. Iren, tra l’altro, può contare sull’esperienza nella gestione del servizio idrico a Palermo e a Cagliari. In futuro, Il "sogno" del presidente Roberto Bazzano è attraversare il Mediterraneo. I Balcani e l’Africa del Maghreb sono aree con notevoli potenzialità, con grandi metropoli che hanno bisogno di grandi interventi in infrastrutture pubbliche. Ma prima bisognerà vincere qualche gara in Italia.