mercoledì 2 marzo 2011

Processo Romiti, 23 febbraio 2011: le balle di Cava Sari

di Anna Fava (Assise di Napoli)

Processo Romiti - Durante l’udienza del 23 febbraio 2011 l'accusa ha chiamato a testimoniare il geologo Giovanni Auriemma, specializzato nella gestione dei rifiuti. Nel 2003 Auriemma era consulente presso la procura di Nola, da cui era stato incaricato di effettuare analisi su circa 900 balle di CDR provenienti dall'impianto di Tufino e depositate sul suolo vivo, senza alcuna precauzione, a Cava Sari, nel comune di Terzigno. Le balle, ha spiegato il teste, erano classificate sulla bolla di accompagnamento con il codice cer 19.12.10 che sta ad indicare "rifiuti combustibili (Cdr, combustibile derivato dai rifiuti)". A causa del deposito selvaggio, ha spiegato il teste, la procura di Nola aveva quasi subito sequestrato l'area ed incaricato una commissione di periti, tra cui Auriemma, di effettuare delle analisi sulle balle per verificarne il contenuto e capire se quel tipo di stoccaggio aveva potuto compromettere le matrici ambientali. Effettuare le analisi, tuttavia, si è rivelato più difficile del previsto: attraverso un modello informatico la commissione aveva calcolato che per esaminare un campione significativo occorreva prelevare 29 ecoballe sulle 914 stoccate, ma a causa delle pessime condizioni in cui si trovava il materiale riuscirono a malapena a prelevarne 20. Infatti, ha spiegato Auriemma, l'involucro protettivo di molte balle era lacerato al punto tale da non consentirne il trasporto. Tuttavia questo permetteva di fare una rapida analisi a vista. "Il contenuto delle balle" ha rivelato Auriemma "non era né Cdr né rifiuto lavorato: dagli impianti avrebbe dovuto uscire un materiale combustibile dalle dimensioni di circa 10 centimetri e ripulito dalla sostanza organica. In quelle balle invece c'erano sacchetti ancora interi, semplicemente spappolati, scarpe e pneumatici. La sostanza organica, soprattutto nelle balle più interne alla piramide, era in stato di marcescenza. Le balle erano state depositate lì con il codice 19.12.10 che sta ad indicare il Cdr, ma quello non era nemmeno rifiuto trattato: era RSU, rifiuto solido urbano". Munnezza punto e basta. La commissione riesce a prelevare 20 campioni di balle ancora impacchettate che vengono spediti in un laboratorio. Ma qui si riceve una nuova "sorpresa": 13 di queste balle non possono essere analizzate perché piene di materiale organico in avanzata fase di putrefazione. Sulle balle analizzate si riesce a fare solo un esame merceologico il cui verdetto è prevedibile: non si tratta di Cdr perché le dimensioni del materiale non coincidono con quelle previste per legge. "Non abbiamo effettuato altre analisi" ha spiegato Auriemma "perché altrimenti avremmo dovuto alterare il materiale analizzato. L'impressione che abbiamo avuto era che quel materiale avesse saltato alcune fasi di lavorazione all'interno degli impianti. Posso ipotizzare che i rifiuti non siano passati per il trituratore e i vagli, che dovevano separare la frazione leggera combustibile da quella organica, più pesante, siano stati alterati in modo da consentire la produzione di un gran numero di balle. Probabilmente - ha aggiunto Auriemma - per espellere dall'impianto quanto più materiale possibile durante una fase di emergenza". La munnezza e l'emergenza, una specie di simbiosi.

La difesa della Fibe ha posto varie obiezioni: com'è possibile tecnicamente che quelle balle avessero saltato una fase di lavorazione se i vari macchinari erano collegati gli uni agli altri? La cattiva qualità di quelle balle poteva dipendere dalla mancata raccolta differenziata? "Come sia possibile" ha risposto Auriemma "non lo so. Ma il prodotto finale non erano balle di cattiva qualità, ma rifiuto non lavorato". Accompagnato da una cospicua quantità di pneumatici interi. Riguardo alla differenziata, ha spiegato ancora il teste, sapeva che negli impianti arrivava rifiuto tal quale, ma lo scopo degli impianti era quello di lavorare l'indifferenziato per produrre un CDR la cui qualità rispettasse i parametri del decreto ministeriale.

La difesa ha posto un'ultima obiezione: come ha fatto la commissione a valutare che quelle balle sforassero i parametri se non sono state eseguite altre analisi se non il controllo merceologico e l'analisi delle dimensioni? Forse il teste non è a conoscenza del fatto che i parametri sulla dimensione del Cdr sono stati cambiati per legge poco dopo? Auriemma ha risposto: "Quando abbiamo eseguito le analisi tra i parametri del Cdr stabiliti per legge c'era anche quello relativo alle dimensioni e questo bastava a provare che non si trattava di Cdr". "Ma" ha sorriso l'avvocato "non doveva essere un parametro determinante se poco hanno cambiato la legge". Il geologo lo ha guardato con aria confusa.

La legge, si sa, è un concetto relativo. E i pneumatici bruciano molto bene.

Ps - ricordo che il processo Romiti vede imputati i vertici della Fibe, della Fisia e della Impregilo, nonché i vertici del Commissariato straordinario per l'emergenza rifiuti in Campania negli anni 2001 - 2005 per truffa, frode in pubbliche forniture e abuso d'ufficio. La prossima udienza si terrà il 9 marzo 2010.

lunedì 3 gennaio 2011

Rifiuti, nascerà a Pomigliano il primo impianto di compostaggio

Il progetto prevede la costruzione di una multi piattaforma ambientale per la digestione anaerobica a secco con tecnologie di nuova generazione. Costo della realizzazione, 24 milioni di euro.

pomigliano_7Partiranno nel 2011 i cantieri per la realizzazione sul territorio della provincia di Napoli di cinque impianti di compostaggio. Come ha spieagto il presidente della Provincia di Napoli Luigi Cesaro: "Gli impianti intermedi sono essenziali per raggiungere gli obiettivi e uscire dalla crisi".

Il primo impianto, per cui in Provincia è già stato consegnato il Piano di fattibilità, vedrà la luce nella zona industriale di Pomigliano. Costo della realizzazione, 24 milioni di euro.

Il progetto prevede la costruzione di una multi piattaforma ambientale per la digestione anaerobica a secco con tecnologie di nuova generazione e sono previste anche sezioni per la lavorazione dei rifiuti elettrici ed elettronici e per gli ingombranti.

Una volta espletate le procedure burocratiche, per cui il presidente Cesaro ha assicurato "tempi brevi", per la realizzazione saranno necessari 18-24 mesi.

L'impianto di Pomigliano, che come spiegato, "lavorerà la frazione umida trasformandola parte in gas e, dunque in energia, e parte in terriccio", servirà le zone di Pomigliano e del Nolano, ma ne usufruirà anche la città di Napoli "esclusivamente" per quanto riguarda i rifiuti elettrici e gli ingombranti. I cinque impianti, da circa 30mila tonnellate l'anno, ha spiegato il presidente dell'ente di piazza Matteotti, "consentiranno di trasformare la frazione organica proveniente da raccolta differenziata all'interno del territorio provinciale".


fonte:http://www.napolitoday.it

giovedì 21 ottobre 2010

Dalla Campania agli inceneritori e un'ipotesi inquietante su Seveso.


di Edorardo Montolli - 17 settembre 2010
Lo stivale italiano dei veleni svelato dal super-consulente delle procure.

In ufficio ci va a bordo di un kajak perennemente ormeggiato tra i canneti che dalla riva degradano lentamente fino al giardino di casa. L’uomo che scende e deposita il remo ha una barba incolta bianca e il cappello alla Crocodile Dundee. Ha scelto di vivere in un suggestivo scorcio del Lago di Mantova che gli allontana i ricordi olezzanti di discariche abusive, rifiuti tossici e industrie chimiche fuorilegge, ossia tutto ciò che nel suo lavoro affronta quotidianamente. Si chiama Paolo Rabitti, 60 anni, due lauree – ingegneria e urbanistica – innumerevoli pubblicazioni, docenze e ricerche alle spalle. Ai suoi studi si affidano i Comuni alle prese con la Tav o i comitati di cittadini preoccupati da inceneritori e aziende chimiche. Gente con cui spesso collabora gratuitamente, così, per coscienza civica, dice.
Ma il suo nome appare soprattutto nelle più importanti inchieste ambientali, chiamato come consulente dalle Procure di mezza Italia. Dai tempi di Felice Casson per il petrolchimico di Porto Marghera, ai pm di Brescia, Ferrara, Rovigo o Grosseto, giusto per citarne alcune: e sempre per smaltimento di materiali tossici, inquinamento da emissioni di Pcb dalle acciaierie, acque devastate da scarichi illeciti. Come per il Lago Maggiore: la sua perizia per il tribunale di Torino è valsa la condanna civile per 1,6 miliardi di euro alla Syndyal, responsabile dello sversamento nelle acque di quantità industriali di Ddt. «Se ne accorsero gli svizzeri, poi fu vietata la pesca. E ancora oggi ci sono sul fondale quantità enormi sedimenti inquinanti».
I magistrati, alle prese con un disastro ambientale dietro l’altro, per capirci qualcosa suonano al suo campanello sempre più spesso. E non poteva non essere così anche per il caso dei rifiuti in Campania: trenta ore di testimonianza nell’aula bunker, un vero record, per spiegare che «con la gestione dei rifiuti la camorra non c’entra proprio nulla». E che per contro c’entravano istituzioni e multinazionali, per le quali è diventato una sorta di incubo, un cave hominem da cui stare alla larga visto che ogni volta che ci incappano finisce a condanne e risarcimenti per i disastri commessi. «In effetti tentano spesso di etichettarmi per un ambientalista, un’etichetta comoda se si devono nascondere gigantesche magagne».
Per quelle che ha scovato in diverse città sugli affari d’oro del pattume, è stato appena nominato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Un incarico, l’ennesimo, che svolge gratis. E che probabilmente avrà il suo fulcro proprio in ciò che accadde nell’area campana. Intorno a un tavolo in legno, sotto al pergolato, l’ingegnere inizia a ricostruirne la storia, attorniato dalla moglie Gloria Costani, di professione medico, da Smilla e Black, i suoi due cani e da un numero imprecisato di gatti.
«Lì la situazione era già piuttosto compromessa, perché per decenni le industrie del centro-nord vi avevano smaltito illegalmente rifiuti pericolosi, interrandoli, sversandoli nelle acque o direttamente nelle falde. Questo per delineare il quadro. Quanto allo scandalo dei rifiuti urbani, c’è un processo per truffa ai danni dello Stato e falso alla Fibe-Impregilo. In sostanza doveva gestire i rifiuti per l’intera regione, separando carta e plastica dalla componente organica. La prima sarebbe servita per produrre combustibile da bruciare negli inceneritori. La seconda doveva essere inertizzata diventando una specie di terriccio da fiori».

Invece?

«Di fatto non veniva prodotto combustibile, né – tantomeno – il terriccio. E la regione si è trovata alle prese con circa dieci milioni di tonnellate di cosiddette “ecoballe”, in barba al Commissariato ai rifiuti che avrebbe dovuto controllare».

Rifiuti uguale camorra, dicono.

«Guardi, la camorra forse è intervenuta nel business dei trasporti dei rifiuti dagli impianti alle discariche, in qualche subappalto fatto da Fibe-Impregilo che peraltro non poteva subappaltare. E forse, ma forse, la camorra si accaparrava i terreni in cui Impregilo aveva deciso di costruire le discariche. Ma di sicuro, con la gestione dei rifiuti, la camorra non c’entra assolutamente nulla, contrariamente a quanto si lascia intendere. La responsabilità è di controllori e controllati. Ed era impossibile non vedere che nelle discariche c’era una situazione da Terzo mondo, che ancora adesso nessuno racconta».

Tipo?

«Progettate per accogliere materiale inerte, e cioè il terriccio, venivano invece riempite con rifiuti organici addirittura freschi che andavano rapidamente in putrefazione e producevano enormi quantità di liquido marcio (il cosiddetto percolato) e di gas. Sicché, oltre a inquinare, puzzavano da morire. Nemmeno le coprivano tutte le sere, né tentavano di limitare almeno le quantità di percolato o di captare il gas. Risultato, il percolato tracimava, l’odore era intollerabile. E per attenuarlo, a qualcuno è venuta l’idea di piazzare spruzzini di profumo sulle recinzioni».

Sta scherzando?

«Giuro. Ho qui una foto».

Con l’intervento del Governo Berlusconi i rifiuti sono spariti d’incanto, in una manciata di giorni. E tutti si chiedono ancora oggi come sia stato possibile.

«Beh, io commento solo ciò che ho visto. E cioè il sito di Ferrandelle: hanno accatastato circa un milione di tonnellate di rifiuti in piazzole preparate in fretta e furia su un terreno quasi paludoso e senza alcun tipo di copertura. Non mi pare esattamente la panacea che hanno dipinto».

Resta il fatto che in alcune regioni del Sud l’emergenza si ripresenta periodicamente.

«Perché per funzionare il ciclo dei rifiuti necessita di amministrazioni che amministrino, controllori che controllino e aziende che facciano quello per cui sono pagate. Ma se, tanto per fare un esempio ipotetico, il politico di turno decide di mandare tutto in discarica, affida la localizzazione a un emissario della camorra, il progetto al cognato che non ne ha mai vista una, la raccolta dei rifiuti a un’azienda creata solo per assumere personale, lo smaltimento a un’altra azienda che ha interessi nei rifiuti pericolosi e la discarica a chi ci fa andar dentro di tutto e se ne infischia della corretta gestione, allora, come dire, se succede tutto questo è molto probabile che si verifichino disastri».

Per molti la soluzione starebbe nei termovalorizzatori.

«Mah, termovalorizzatore è un termine eufemistico. Secondo le leggi nazionali ed europee si deve parlare di “inceneritori con recupero di energia”. Certamente sono impianti assai vantaggiosi economicamente ed è per questo che c’è la corsa a costruirli. Peccato che in Italia l’energia prodotta incenerendo i rifiuti sia stata fatta passare alla pari di quella proveniente dal sole e dal vento. E veniva così adeguatamente sovvenzionata finché la Comunità europea ci ha tirato le orecchie, perché è evidente che non si tratta della stessa cosa. E vorrei confutare un’altra colossale bugia: non è vero che gli inceneritori non inquinino. Anche ammesso che le emissioni rientrino nei limiti di legge, moltiplicando le concentrazioni a metro cubo degli inquinanti per il numero di metri cubi di gas che escono dai camini si trovano quantità molto rilevanti. Senza contare i delinquenti che taroccano il software di controllo per simulare emissioni inferiori a quelle reali. Alcuni casi li ho constatati di persona».

E allora, la soluzione?

«Il sistema migliore è, ovviamente, non produrli».

Facile.

«Scusi, perché se compro una fetta di formaggio al supermercato mi devo portare a casa altrettanta plastica? Costa poco produrla, ma molto smaltirla, sia in termini economici che ambientali. Oltre a ridurre bisogna cercare di recuperare e riusare, visto che ogni cosa che finisce in discarica o viene incenerita provoca un impatto ambientale».

Un po’ utopistico.

«Nient’affatto. A Treviso raggiungono l’80 per cento, ripeto 80 per cento di raccolta differenziata come media annuale. Così, visto che non serve l’inceneritore per rifiuti urbani, gli industriali hanno pensato bene di chiedere di costruirne due per rifiuti speciali. E sta ovviamente succedendo un putiferio, perché la gente si sente presa in giro».

Una sensazione che si avverte spesso. Lei si è occupato del cloruro di vinile di Porto Marghera, uno dei più grandi scandali italiani, che vedeva al centro il colosso industriale Montedison.

«Già. Scoppiò tutto perché un operaio, Gabriele Bortolozzo, volle capire il motivo per cui gli amici che lavoravano con lui nel reparto in cui si produceva polivinilcloruro (Pvc) a partire dal cloruro di vinile (Cvm) fossero tutti morti di tumore. Fu grazie alla sua personale ricerca inviata alla Procura di Venezia che iniziò l’indagine di Felice Casson. Tra le carte dell’inchiesta sul Petrolchimico di Brindisi trovai un documento del 1974 (che poi depositai agli atti del processo di Marghera) in cui un dirigente di Montedison affermava che le aziende sapevano che il Cvm fosse cancerogeno molto prima della scoperta ufficiale del 1973, ma che l’avevano tenuto segreto. E in un secondo documento del 1977 (che mi fu anonimamente imbucato nella cassetta della posta) un altro dirigente Montedison scrisse che non bisognava fare le manutenzioni agli impianti. E questi sono solo due esempi, per dare l’idea di una vicenda incredibile».

Pare incredibile anche ciò che è accaduto con lo sversamento in mare del petrolio della BP. Barack Obama l’ha paragonato all’11 settembre...

«È certamente un disastro ambientale di proporzioni terrificanti, ma è anche la dimostrazione che l’estrazione del petrolio comincia a essere troppo difficile. Le conseguenza sull’ambiente non sono per ora compiutamente valutabili. Si pensa che gli effetti dureranno molte decine di anni. D’altra parte, il caso americano ha fatto riemergere anche la questione dello sversamento nel delta del Niger che da decenni, nel silenzio generale, sta devastando l’ecosistema. O meglio: negli anni Ottanta il poeta Ken Saro-Wiwa si fece portavoce delle rivendicazioni della popolazione. Ma finì impiccato».

Anche lei è tra quelli che sostengono la necessità di passare alle energie rinnovabili?

«Credo che sfruttarle sia un dovere morale, oltre che una necessità contingente. Se, invece di riempire le tasche dei padroni degli inceneritori con i contributi destinati alle energie rinnovabili, i soldi fossero stati usati per incentivare la ricerca e l’installazione degli impianti il nostro Paese sarebbe sicuramente all’avanguardia».

Lei non si fida del nucleare?
«Il ministro che più spingeva per le centrali nucleari era Scajola. Veda lei».

È degli incidenti che tutti hanno paura. In fondo qui siamo nella terra della diossina di Seveso, dell’Icmesa dei disinfettanti... Seveso, la Chernobyl italiana…
«Posso raccontarle a questo proposito una storia cui lavoro da molto tempo? Sa, ci sto scrivendo un libro».

Prego
.
«A seguito del disastro del 1976 all’Icmesa, la commissione della Regione Lombardia stilò un rapporto secondo il quale “sembra” che parte delle 1.600 tonnellate di materiale asportato dalla fabbrica subito dopo il disastro venne smaltita in un inceneritore del Mare del Nord, inceneritore che però non fu indicato. Scrisse proprio così, “sembra”. Il resto del materiale rimasto nel reattore, e cioè 41 fusti di diossina e triclorofenolo, fu affidato a tale Bernard Paringaux, persona che si disse legata ai servizi segreti e che avrebbe dovuto smaltirli in una discarica controllata in Francia. Paringaux li mostrò in tv, solo che i fusti erano più piccoli di diametro rispetto a quelli che erano partiti. Ne nacque un giallo che si risolse solo molto tempo più tardi, quando fu spiegato che erano stati smaltiti probabilmente vicino alle ex miniere di sale della Ddr. Probabilmente. Di fatto, nessuno seppe mai nemmeno in questo caso né dove, né se a essere effettivamente smaltiti furono i fusti partiti dalla sede dell’Icmesa. Perché la verità è questa: che nessuno sa dove siano finiti. E questo è il primo punto. Il secondo è che la diossina provoca il sarcoma, un tumore il cui tempo di latenza si aggira intorno ai dieci anni».

E quindi?

«Lei lo sapeva che Mantova è la città con la più elevata frequenza di sarcomi in Italia rispetto alle popolazioni della zona industriale?».

Non seguo il paragone.

«Ce ne accorgemmo io e mia moglie che, essendo medico di base, notò che buona parte di questi tumori colpivano pazienti che abitavano vicino al vecchio inceneritore della città. Che oggi è vecchio, ma che nel 1980 era stato inaugurato come il più moderno inceneritore per rifiuti tossico-nocivi d’Europa. Scrivemmo un report. E in effetti l’Istituto superiore della Sanità promosse uno studio approfondito, constatando che chi abitava vicino all’inceneritore di Mantova aveva una probabilità ben trenta volte superiore al resto della città di sviluppare il sarcoma. Ed è una circostanza stranissima, perché in nessun altro luogo dove è presente un inceneritore per tossico-nocivi è mai stato evidenziato un aumento dei sarcomi. Circostanza della quale infatti sono stato chiamato a relazionare poco tempo fa alla Gordon and Mary Cain Foundation a Philadelphia».

La questione comincia a farsi inquietante.
«All’epoca di Seveso non esistevano strumenti per capire quanta diossina potesse essere entrata nel sangue della popolazione. Ne furono congelati alcuni campioni che vennero analizzati anni più tardi dalla Cdc (Center for Diseases Control) di Atlanta, praticamente l’Istituto superiore della sanità degli Stati Uniti. Tempo dopo, per sintetizzare, fu chiesto di analizzare il sangue dei mantovani. La clinica del lavoro di Milano stilò un rapporto in cui concludeva che il livello di diossina nel loro sangue a campione era medio-basso. Invece non era vero.
A seguito di un’interrogazione parlamentare di Casson, rivide drasticamente il proprio parere e in un cosiddetto “consensus report” assieme all’Istituto Superiore di Sanità sostenne che il livello di diossina era medio-alto. Ecco, il problema è questo. Che non è possibile, o almeno non c’è una spiegazione scientifica, che lo giustifichi. Visto che qui il polo chimico è chiuso da vent’anni. Come del resto l’inceneritore, sigillato nel lontano 1992. La domanda è: da dove arrivava la diossina che provoca i sarcomi nel sangue dei mantovani?».

Sta dicendo che i fusti di Seveso vennero smaltiti da queste parti, a Mantova?

«No. Sto facendo alcune constatazioni scientifiche su coincidenze attualmente senza risposte. La prima è che Mantova ha inspiegabilmente questa elevata concentrazione di sarcomi. La seconda è che chi abita vicino all’inceneritore ormai fermo da diciotto anni aveva inspiegabilmente probabilità trenta volte più alte di ammalarsi di sarcoma rispetto al resto della popolazione di Mantova, quasi che lì si fosse bruciata diossina. La terza è che in nessun’altra città che abbia avuto un inceneritore per rifiuti tossico-nocivi c’è mai stata correlazione statistica così diretta con i sarcomi. La quarta è l’assolutamente inspiegabile livello medio-alto di diossina nel sangue dei mantovani. E la quinta è che – purtroppo – nessuno sa che fine abbiano fatto i 41 fusti e gli altri rifiuti di Seveso: quelli che la stessa commissione della Regione Lombardia scrisse soltanto che “sembra” siano stati smaltiti nel Mare del Nord, e la cui sorte è dunque avvolta nel mistero. E poi c’è un sesto elemento...».

Cioè?

«I sarcomi a Mantova hanno iniziato a manifestarsi alla fine degli anni Ottanta, con i consueti dieci anni di latenza. E cioè più o meno dieci anni dopo l’incidente dell’Icmesa, a 150 chilometri da qui. Lo ricordo bene perché venni ad abitare in questa zona alla fine degli anni Settanta. E osservai nel mio giardino un fenomeno che non avevo mai visto prima e che mi colpì profondamente, anche perché non lo rividi più».

Quale?

«Era il mese di maggio. E dagli alberi caddero le foglie».

Tratto da: IL maschile de Il Sole 24 ore

martedì 12 ottobre 2010

Pianura, non c’è disastro ambientale Il pm chiede l’archiviazione: manca il nesso fra veleni e malattie

di Dario del Porto
Repubblica Napoli 12 ottobre 2010

NEGLI anni ’80 e ‘90 e comunque fino al 1995 è stato scaricato illecitamente nella discarica ex Difrabi di Pianura «un immenso quantitativo di rifiuti tossici». Nonostante questo elemento che risulta «documentalmente», le indagini del Noe coordinato dal pm Stefania Buda non consentono di ipotizzare, a fronte di questa acclarata «situazione di criticità della discarica», il reato di disastro ambientale. Allo stesso modo, non è stato possibile raccogliere dati sufficienti per valutare in concreto se e in che misura l’esposizione ai veleni scaricati nell’area abbia determinato conseguenze sulla salute dei cittadini.
In mancanza di elementi ritenuti utili a sostenere l’accusa in un eventuale giudizio, il pm Buda, titolare della complessa e articolata inchiesta condotta in questi mesi, ha pertanto chiesto l’archiviazione del procedimento. Il fascicolo era stato aperto per reati fra i quali omicidio colposo ed epidemia colposa a seguito dell’esposto presentato in Procura da alcuni residenti nei pressi della discarica. Contro la richiesta di archiviazione è stata presentata opposizione, la parola passa dunque al giudice AlessandroDeciderà il gup a novembre. Gli atti al pool Ecologia: gestione di rifiuti “non autorizzata”Buccino Grimaldi che ha fissato l’udienza in camera di consiglio prevista dalla legge per il 2 novembre prossimo.Nel corso delle indagini, su disposizione del pm Buda, erano state acquisite le cartelle cliniche di residenti ed ex lavoratori della discarica oltre a dati estratti dall’istituto per i tumori e da altre strutture ospedaliere. Gli esperti nominati dalla Procura non hanno però potuto confrontare questi dati con altri, risultati indisponibili, riguardanti ad esempio il trend specifico delle malattie nella zona e quelli rilevati anche in soggetti sani che ancora oggi risiedono nei pressi della discarica. Questo ha impedito di ricostruire quel quadro «concreto e specifico» della situazione senza il quale non è possibile ipotizzare un nesso tra la situazione ambientale dell’area che circonda l’invaso di Pianura e la diffusione di gravi malattie tumorali sulla popolazione.Sul tavolo del gup ci sono adesso tre possibili soluzioni: l’archiviazione del caso, l’indicazione al pubblico ministero di nuove indagini oppure la richiesta di formulazione dei capi d’imputazione. Ma al di là di quelle che saranno le decisioni del giudice, l’inchiesta non è finita ma anzi prosegue lungo un altro filone. Vanno infatti avanti, e saranno coordinate dal pool Ecologia della Procura, le indagini sui reati ambientali nell’area della discarica ex Difrabi ritenuti «tuttora perduranti» dagli inquirenti. Il pm Buda ha stralciato questo capitolo del procedimento, che conta quattro indagati e configura una presunta gestione non autorizzata di rifiuti, e ha trasmesso gli atti alla sezione guidata dal procuratore aggiunto Aldo De Chiara, competente per i procedimenti su questa materia. Dagli accertamenti tecnici è emerso che vari strati della discarica sono privi di impermeabilizzazione,inoltre si registra ancora la fuo- riuscita di biogas sulla quale, ad avviso del pm Buda, è necessaria la valutazione della sezione specializzata nelle violazioni ambientali. Basti pensare che durante le operazioni di carotaggio effettuate da tecnici del ministero dell’Ambiente d’intesa con la Procura, le esalazioni di biogas hanno determinato addirittura un principio di incendio. Il 21 gennaio 2008 la discarica era stata sequestrata per effettuare gli accertamenti tecnici imposti dall’indagine. Ora il pool Ecologia dovrà riesaminare gli atti e verificare la sussistenza dei reati originariamente ipotizzati.

Solofra, sequestrato impianto di compostaggio di un azienda

Aritocolo tratto da Irpiniaoggi.it
Sabato 09 Ottobre

SOLOFRA - Nell’ambito dei servizi finalizzati all’accertamento dei reati in materia ambientale, i militari della Stazione Carabinieri di Solofra, con la collaborazione dei Carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di Salerno, hanno ispezionato un impianto di compostaggio, di una società che si occupa del recupero di rifiuti speciali non pericolosi, situata a Solofra, nella zona industriale, e gestita da un 37enne imprenditore avellinese.
Nel corso degli accertamenti condotti, i militari dell’Arma hanno potuto costatare che l’azienda era sprovvista della prescritta e preventiva autorizzazione alle emissioni in atmosfera. Per tale motivo i carabinieri hanno proceduto al sequestro preventivo dell’impianto. L’amministratore unico dell’azienda, inoltre, è stato deferito in stato di libertà per la violazione di alcuni articoli del Decreto legislativo nr. 152 del 2006 (Norme in materia ambientale).

Discarica di Maruzzella, Arena: a breve partiranno i nuovi lotti

articolo di Pietro Falco
11 ottobre 2010

Per l’assessore all’Ambiente la provincia diventerà autosufficiente con le ultime realizzazioni


CASERTA — Il 5 ottobre abbiamo completato il lotto 6 della discarica di Maruzzella 3, che ha una capienza di 180 mila metri cubi e ci darà respiro per almeno 6 mesi. Oggi, lunedì firmerò con il Consorzio Sa 2 il contratto per i lotti 7 e 8, capaci di accogliere altri 300 mila metri cubi: ci verranno consegnati entro marzo 2011. E così potremo dedicarci con la massima tranquillità alla realizzazione del nostro piano per rendere la provincia di Caserta autosufficiente in materia di rifiuti solidi urbani». Il piano a cui fa riferimento l’assessore provinciale all’Ecologia, Umberto Arena, è quello approvato dalla giunta lo scorso 20 settembre e poi ratificato dal presidente Domenico Zinzi dieci giorni dopo. «L’obiettivo che ci siamo posti - spiega Arena — è quello di una gestione realmente sostenibile e after-care free, cioè che tutti i trattamenti non comportino problemi per le future generazioni. Ma la precondizione è di raggiungere almeno il 50% di raccolta differenziata entro il 31 dicembre 2011: e al momento siamo ad una media del 28-30%. Il riciclo e recupero di materiali, infatti, sono imprescindibili per migliorare considerevolmente l’intero sistema di gestione».
La pianificazione mira innanzitutto a una drastica riduzione dei volumi smaltiti in discarica: vi finiranno solo 80 mila tonnellate, cioè il 17% di quanto avviene oggi. «Per la frazione organica umida — sottolinea l’assessore — è previsto il trattamento in moderni impianti di digestione anaerobica, per ottenerne la trasformazione in biogas per la produzione di calore ed energia elettrica, e inmateriale stabilizzato utilizzabile come compost ammendante. Ne abbiamo individuati tre, in grado di lavorare complessivamente 100 mila tonnellate all’anno. E uno sarà sicuramente allocato a San Tammaro modificando l’impianto di compostaggio in via di realizzazione. Dal punto di vista economico i Comuni ne trarranno enorme beneficio, perché i costi di gestione saranno quasi dimezzati».
La cosiddetta frazione secca residuale, calcolata in 250 mila tonnellate annue, è destinata invece al trattamento termico: «Circa 150 mila — rivela Arena— dovrebbero essere distribuite nei tre impianti regionali. Per la parte rimanente è prevista la realizzazione di un piccolo termovalorizzatore di concezione avanzata».


lunedì 11 ottobre 2010

Termovalorizzatore Acerra la Procura apre un’inchiesta

da Repubblica.it del 8/10/2010 di Patrizia Capua La Procura di Napoli ha aperto un’inchiesta sul termovalorizzatore di Acerra. Il procuratore Giovandomenico Lepore e i pm Federico Bisceglia e Maurizio De Marco hanno delegato i carabinieri del Noe a eseguire verifiche sull’impianto, accertando in particolare se le sue caratteristiche corrispondano a quelle del bando di gara, sulle emissioni, sulla qualità e la quantità dei rifiuti bruciati. La competenza territoriale su Acerra non è della Procura di Napoli, ma in questo caso si è fatto riferimento alla norma sulla Procura regionale contenuta nel “decreto Berlusconi” del 2008.L’inchiesta infatti è stata avviata dopo due denunce – una del Comitato civico per Acerra, l’altra dell’ex senatore di Rifondazione Tommaso Sodano – protocollate nel 2009, quando esisteva ancora la “superprocura”, e finora mai esaminate.

Il sindaco di Acerra Tommaso Espo

iesto di

sito ha ch essere ricevuto lunedì dal procuratore di Nola, Paolo Mancuso per sapere come stanno le cose. “Queste notizie – dice il primo cittadino – gettano allarme e preoccupazione. Una volta che saranno verificate, adotteremo tutte le misure necessarie, sapendo bene che l’intera area dell’inceneritore è considerata sito strategico nazionale e per questo tenuta sotto stretto controllo anche dalle autorità militari. Io sono stato ricevuto – prosegue il sindaco Esposito – mercoledì mattina dalla struttura del commissariato per l’emergenza rifiuti a Roma e mi hanno dato dati che sono tranquillizzanti. Nonostante questo farò partire l’osservatorio ambientale del Comune, affinché i nostri esperti possano verificare la concordanza delle notizie e darci la possibilità di agire con senso di responsabilità”.

L’inceneritore sta funzionando ad una linea, le altre due sono ferme da mesi. “Ci hanno illustrato un piano di manutenzione dell’impianto – continua il sindaco – che andrà in vigore dopo il mese di giugno 2011. Il Comune ha chiesto tutte le garanzie dell’Aia, Autorizzazione integrata ambientale, prescrizioni complete tra cui il monitoraggio continuo del mercurio, ma allo stato attuale questo impianto non è ancora attivato e sarà pronto alla fine del 2010″.

Nelle scorse settimane Sodano era già stato ascoltato dai pm, ai quali aveva fornito chiarimenti sulla denuncia del giugno 2009. Oggi consegnerà un dossier per integrare le presunte carenze già segnalate allora. “È curioso che la denuncia sia rimasta nel cassetto per un anno – commenta Sodano – il primo giugno avevo fatto la richiesta di sequestro dell’impianto perché non erano rispettate le prescrizioni”. La prossima settimana, intanto, il procuratore Lepore e i pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo, titolari delle tre inchieste napoletane sui presunti illeciti nello smaltimento dei rifiuti e nei collaudi degli impianti per la produzione di cdr, saranno ascoltati dalla commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti.

Il termovalorizzatore non funziona a pieno regime, in questo momento è attiva solo una delle tre linee di lavoro, la prima. La linea 2, ferma dal 7 settembre, dovrebbe riprendere per fine ottobre, per la 3 invece, ferma dal 17 agosto, appuntamento al 20 dicembre. Anche la 1 è stata ferma fra maggio e luglio. L’impianto, costruito dalla Fibe, è passato alla A2A di Brescia che qui è diventata “Partenope 2″ e nel 2012 dovrebbe essere acquistato dalla Regione o preso in carico dal governo stesso.

Sodano insiste. Nd, dati non disponibili, è la sigla che ricorre sul sito ufficiale dell’Arpac nelle rilevazioni quotidiane sull’attività del termovalorizzatore di Acerra. Sigla inquietante se ripetuta troppe volte nel corso di un anno. L’impianto, che sulla carta ha liberato almeno in parte Napoli dall’incubo della spazzatura, funziona? Che cosa esce dal camino? Ora toccherà alla magistratura scoprirlo.

Utility, patto a tre di non aggressione Entro il 2012 la quota di controllo dei soggetti pubblici in queste attività dovrà scendere al 30%, altrimenti

tratto da "La Repubblica"

di LUCA PAGNI


Sono pronte. Sia per aggiudicarsi le gare, non appena verranno bandite. Sia per presentarsi come partner industriali, non appena saranno aperti i capitali delle società. In ogni caso, sono destinate a diventare i nuovi campioni nazionali in settori di primo piano come la gestione delle acque o lo smaltimento dei rifiuti. Ma anche a competere alla pari con i colossi stranieri nel business dell’energia e del gas.

Per A2a, Iren ed Hera, le tre principali utility a controllo pubblico il 2011 si presenta come un anno di grandi opportunità. Vuoi perché hanno completato il percorso di alleanze sia con altre utility sia con partner finanziari vuoi perché il legislatore, con un intervento che molti operatori hanno giudicato come una forzatura, costringerà le aziende pubbliche ad aprire il capitale a partner industriali.

L’opportunità è rappresentata dal cosiddetto decreto Ronchi, il provvedimento che nelle intenzioni del governo di centrodestra dovrebbe aprire ai privati la gestione dei servizi pubblici locali. Il decreto prevede che le utility quotate possano mantenere le concessioni solo se gli azionisti pubblici scenderanno al 40% del capitale entro il 2011 e al 30% entro il 2012. Il che significa oltre 2 miliardi di euro di azioni messe sul mercato. Tutte le altre municipalizzate potranno mantenere le concessioni solo se la componente pubblica scenderà almeno al 40%, oppure saranno costrette a mettere i servizi in gara.

Questo sulla carta. Con grandi mugugni dei comuni azionisti che hanno vissuto la legge come l’ennesimo favore alle lobby degli imprenditori interessati a entrare nel settore pubblico delle acque, dei rifiuti e del trasporto pubblico (gas, elettricità e trasporto ferroviario locale sono ambiti esclusi dal legislatore). Invece, la Ronchi a detta degli esperti potrebbe favorire quelle società che, secondo la legge, sono società di diritto privato e persino quotate in Borsa, ma che dal punto di vista della proprietà sono controllate dai grandi Comuni. Con i sindaci che finiranno per ritrovarsi nell’elenco dei principali imprenditori italiani.

Non solo. L’opportunità che la Ronchi concede alle utility potrebbe anche essere finanziaria come spiega Lorenzo Parola, responsabile del dipartimento energy dello studio legale Dewey & LeBoeuf: «Le società quotate che vedranno scendere al 40 e poi al 30% la quota di partecipazione pubblica troveranno i fondi necessari da reinvestire nelle gare per l’affidamento dei servizi o per comprare quote di altre società pubbliche. Inoltre, siccome la legge dice che va privilegiata nell’offerta la qualità del servizio rispetto all’offerta economica, le utility sono in grado di mettere a frutto tutta l’esperienza e il knowhow accumulati in questi anni».

Ma non si tratta solo di sfruttare le possibilità offerte dal decreto Ronchi. Perché ci sono già tre ex municipalizzate che, anticipando i tempi e a colpi di faticose alleanze, sono in pole position per giocare un ruolo di primo piano a livello industriale in tre settori tra loro non concorrenziali. A2a, l’utility nata dalla fusione tra Aem Milano e Asm Brescia, è diventato il nuovo polo di riferimento nell’energia e il gas. Iren, ultima arrivata grazie alla fusione tra Iride (Genova e Torino) ed Enia (Piacenza, Parma e Reggio) è diventato il secondo polo italiano nella gestione di reti idriche e acquedotti. E, infine, Hera (Bologna, Modena, Ravenna e qualche decina di comuni emilanoromagnoli) è destinata a crescere nella gestione dei rifiuti e nella produzione di energia elettrica dai termovalorizzatori.

Un altro punto di contatto tra le tre utility del centronord è il ricorso ad alleanze finanziarie per crescere. Pioniere in questo campo sono state Aem Milano, Aem Torino e Asm Brescia che ancora prima di fondersi hanno aperto le porte alle banche per aggiudicarsi le centrali ex Enel che l’Antitrust ha fatto mettere in gara per aprire la concorrenza nel settore elettrico. L’alleanza con il capitale finanziario ha permesso loro di disporre di capacità elettrica da vendere ai clienti dei grandi comuni, migliorando i margini e portando a casa decine di milioni di utili ogni anno. E siccome la Ronchi non mette in gara i servizi di elettricità e gas, A2a ha iniziato a battere altre strade. Come dimostra l’affidamento al gruppo lombardo del termovalorizzatore di Acerra, impianto cardine per l’emergenza rifiuti in Campania. La strada delle alleanze finanziarie per crescere è stata seguita anche dagli altri. L’ultima della serie è stata Hera. La società guidata da Tomaso Tommasi ha individuato nel ciclo dei rifiuti il business in cui diventare un campione nazionale. E per trovare nuove risorse per i suoi investimenti ha individuato un partner andandoselo a prendere a Londra. La scelta è caduta sul fondo specializzato in infrastrutture Eiser che ha rilevato il 20% di Herambiente per 105 milioni. Una scelta dettata anche dal fatto che Eiser possiede già il 33% di uno dei principali operatori di waste management in Gran Bretagna (Cory Environmental). Hera può mettere in campo l’esperienza accumulata in tutta la filiera dei rifiuti: dalla realizzazione dei termovalorizzatori alla gestione di discariche e impianti di compostaggio. E secondo alcuni analisti sarebbe già pronta a partecipare a gare anche in giro per l’Europa. Stesso discorso per Iren. L’alleato in questo caso è italiano e risponde al nome di F2i, il fondo infrastrutturale presieduto dall’ex numero uno di Autostrade, Vito Gamberale. Assieme hanno dato vita a una società che avrà come socio di maggioranza Iren, con il 65% delle quote di capitale e per il restante 35% il fondo F2i. Il primo passo sarà quello di crescere nelle regioni in cui Iren è già predominante, ma l’ambizione è quella di superare in breve tempo il leader italiano, la romana Acea e respingere la concorrenza dei colossi francesi Suez e Veolia che hanno già i loro avamposti nella penisola. Iren, tra l’altro, può contare sull’esperienza nella gestione del servizio idrico a Palermo e a Cagliari. In futuro, Il "sogno" del presidente Roberto Bazzano è attraversare il Mediterraneo. I Balcani e l’Africa del Maghreb sono aree con notevoli potenzialità, con grandi metropoli che hanno bisogno di grandi interventi in infrastrutture pubbliche. Ma prima bisognerà vincere qualche gara in Italia.

venerdì 11 giugno 2010

Rifiuti, bocciatura dall'Europa: la crisi non è finita

Da Il Mattino del 10/06/2010
di Daniela De Crescenzo

La Commissione dice no alla discarica bis di Terzigno. Dubbi su Acerra: possibili residui tossici
Conclusioni dure, durissime quelle della commissione petizioni arrivata in Campania a fine aprile, ma anche indicazioni precise per tentare di non perdere almeno parte dei fondi bloccati dall’Europa. Il documento conclusivo sarà discusso nei prossimi giorni in una seduta allargata alla quale parteciperanno anche i parlamentari italiani che hanno preso parte alla missione. Tanti i punti critici a partire dal raddoppio della discarica di Terzigno alla quale l’Europa oppone un no deciso, per passare al sito di Ferrandelle dove ci sarebbero «rifiuti non identificati» per finire dalle ecoballe che secondo i commissari andrebbero subito incenerite. Tutti argomenti che saranno anche al centro dell’audizione dell’assessore regionale Giovanni Romano che dovrebbe essere fissata per il 22 giugno prossimo a Bruxelles. Ma non è tutto. L’Europa, infatti, mette nel mirino anche la Protezione civile scrivendo: «Ha alleggerito la pressione dando alle autorità regionali circa tre anni di autonomia in termini di capacità di smaltimento in discarica e consegnando un inceneritore funzionante». Poi le critiche: «Alcune delle decisioni assunte e soprattutto quelle riguardanti la localizzazione delle discariche sono state prese in fretta senza le dovute consultazioni e sono risultate spesso incaute». Anche l’utilizzo dell’Esercito non sarebbe più utile: «La supervisione militare è controproducente rispetto alla trasparenza e a ogni ragionevole percezione di normalità», scrivono i commissari. E sul termovalorizzatore: «Dubbi seri rimangono sulle caratteristiche dei rifiuti che vengono bruciati ad Acerra e su possibili residui tossici della combustione». Le conclusioni: «La crisi dei rifiuti in Campania non è finita. Giace dormiente con un alto rischio di poter riesplodere. Inoltre diverse discariche sono in mani private e le autorità sembrano avere un controllo limitato e una parziale conoscenza di che cosa ci arriva di come i siti vengono gestiti». Poi le raccomandazioni utili per sbloccare i 135 milioni di euro che restano congelati: innanzitutto le linee guida elaborate dalla Regione devono essere trasformate in un concreto e dettagliato piano per la gestione dei rifiuti comprendendo indicatori per misurare progressi e scandire responsabilità e devono essere stanziate risorse sufficienti a sostenere il piano. Non solo: questo deve includere anche la bonifica dei siti inquinati e deve avere il sostegno da parte autorità locali e degli operatori, deve essere compatibile con le direttive nazionali e le altre regioni devono essere pronte ad adattare misure per rispondere alle richieste urgenti della Campania. La commissione riconosce infatti che per troppo tempo essa ha ricevuto rifiuti domestici e industriali provenienti dal resto d’Italia e questo ha creato i presupposti della crisi. I fondi sospesi devono essere impegati per supportare l’avvio del piano. In sostanza per poter intascare bisognerà creare una vera e propria road map creando anche un piano per lo smaltimento dei rifiuti tossici conforme alla cosiddetta «direttiva Seveso»: bisognerà, quindi organizzare subito siti speciali conformi alle direttive Eu. Un punto per il quale si è battuto particolarmente l’europarlamentare Andrea Cozzolino che ha partecipato alla missione in Campania. A conti fatti non sarà facile rispondere positivamente alle richieste dell’Europa e infatti sull’argomento è tornato l’europarlamentare Enzo Rivellini sottolineando la necessità che la Regione rompa gli indugi su questo punto. L’assessore Romano, dal canto suo ha replicato di essere in trepidante attesa di suggerimenti mentre il presidente della commissione petizioni Erminia Mazzoni ha ricordato: «Se vogliamo definitivamente liberare Terzigno e aiutare la nostra regione dobbiamo intervenire sul parlamento perché modifichi la propria legge». E Cozzolino ribadisce: « Nei sopralluoghi che ho voluto condurre di persona a Cava Vitiello ho verificato l’impatto devastante che avrebbe la creazione di una discarica in un’area così estesa e vitale del Parco del Vesuvio»

Tre Giorni per la Cultura a Gricignano, edizione 2010


Vi aspettiamo i giorni 25, 26 e 27 Giugno nella splendida cornice storica del palazzo Santagata - Di Luise.

mercoledì 9 giugno 2010

I Medici per l'Ambiente denunciano il grave ritardo dei risultati del monitoraggio Sebiorec

Acquisite le dichiarazioni a mezzo stampa in data odierna concernenti i drammatici ritardi nel completamento e nella pubblica disponibilità dei risultati dello studio di biomonitoraggio tossicologico su matrici umane definito SEBIOREC, in corso dall’ormai lontanissimo 2007, i sottoscritti Dottori, iscritti all’Associazione Medici per Ambiente (ISDE) della sezione di Napoli e Provincia che, a proprie spese, si sono sottoposti ad analisi di bio-monitoraggio tossicologico risultando contaminati da livelli non insignificanti di sostanze come diossine e diossino-simili come i PCB (policlorobifenili), ritengono certamente poco consone al ruolo, e al limite dell’ingiuria, le affermazioni di “forsennati allarmismi” rese dal Prof Bianchi alla stampa (cfr. Corriere del Mezzogiorno del 05 06 2010, pag. 5)

Appare ormai a tutti bene evidente il significato implicito sia dei gravissimi ritardi che dei sin troppo ovvi ottimistici risultati previsti, grazie ad un biomonitoraggio fatto “a pool di sieri”, e cioe’ con una analisi ed un solo risultato ogni dieci sieri raccolti (quindi 78 analisi per 780 prelievi di siero messi insieme a gruppi di dieci e sole 5 analisi di latte materno su 50 campioni di latte materno raccolti) sovvenzionati dallo Stato per una cifranon inferiore a 2.5milioni di euro nel lontano 2007.

Nostro ruolo e nostro preciso dovere deontologico, fatto a nostre spese, è stato solo quello di tentare (inutilmente!) di accelerare tali indispensabili accertamenti da parte degli organismi competenti preposti, specie regionali.

Di “forsennato” appare ormai chiarissimo che ci sono stati solo ritardi e sottovalutazioni del problema che esigeva interventi, anche di biomonitoraggio tossicologico, più mirati e scientificamente non criticabili (ad esempio abbiamo speso milioni di euro per dosare la diossina nei cassonetti in fiamme e non lo abbiamo fatto nei Pompieri esposti ai roghi ai sensi vigente DL 81/08, ed il disegno dello studio SEBIOREC è stato definito errato dal Prof. Donato Greco e non da noi) e di certo analizzando campioni individuali e non “a pool”, dati i gravissimi dati degli ormai lontanissimi e sempre lentissimi studi di epidemiologia ambientale, successivamente ampiamente confermati dalle analisi disposte dalla Magistratura inquirente e persino da organismi terzi e indipendenti come la Marina degli Stati Uniti (US NAVY) .

Noi abbiamo eseguito le analisi su noi stessi nel giugno 2007, dopo averne fatto pubblica comunicazione in un consiglio comunale ad Acerra, proprio e soltanto per accelerare il SEBIOREC nella infinita stima di Ricercatori insigni come il Prof. Bianchi, ed i risultati li abbiamo resi pubblici e disponibili nel gennaio 2008, negli stessi tempi e modalità di quanto fatto dal Comune di Brescia nel “caso Caffaro “ di pochi anni prima. In data 16 gennaio 2008, per obbligo di legge concernente il doveroso allarme da parte di un medico in caso di conoscenza diretta di grave rischio per la salute pubblica, ne abbiamo fatto anche pubblica Comunicazione al Senato della Repubblica Italiana.

Successivamente abbiamo dovuto assistere, impotenti ma interessati, al prezioso intervento persino della US NAVY a tutela dei propri cittadini.

In pochissimi mesi (marzo 2008-ottobre 2009) la US NAVY ha svolto, elaborato, pubblicato ben 4000 pagine di analisi ambientali ed epidemiologiche ed ha conseguentemente fatto allontanare i propri cittadini e militari dalle zone controllate sulla base del principio di precauzione, che, per i cittadini campani, evidentemente non esiste!

Riteniamo pertanto inaccettabile ed offensivo, ed ormai del tutto inutile, tentare di giustificare ritardi ed omissioni con accuse di “allarmismi forsennati” .

Come nel caso del terremoto dell’Aquila, a nostro avviso appare semmai un penalmente rilevante comportamento omissivo e di assoluta “mancanza di allarme” da parte degli organismi (specie regionali) istituzionalmente preposti alla tutela della salute pubblica in una Regione, come la Campania, che da oltre trenta anni è l’epicentro nazionale del “terremoto” del pericolosissimo e turpe commercio di rifiuti tossici industriali che ha avvelenato, e continua ad avvelenare, con obbligati, conseguenziali e certi riflessi sulla salute pubblica (di ben oltre 370 cittadini come a L’Aquila), il territorio della Regione Campania!

Che poi nei nostri corpi ci siano veleni come diossine, PCB o metalli pesanti dipenderà soltanto da quello che la camorra avrà ormai abbondantemente sversato, da quello che gli organismi preposti a tutela non avranno controllato, e da quello che nostro Signore avrà eventualmente provveduto, miracolosamente, a non farci assumere.

Napoli, li 5 giugno 2010

Dottor ANTONIO MARFELLA , ISDE Napoli

Dottor GENNARO ESPOSITO, ISDE Nola

Dottor LUIGI MONTANO, ISDE Acerra

Nella foto (di Franco Spinelli) il dottor Antonio Marfella

DIOSSINA: ANALISI ALLA POPOLAZIONE CAMPANA. MA DOVE SONO FINITI I RISULTATI DEL SEBIOREC?

STUDIO SEBIOREC:


E’ UN BIO-MONITORAGGIO COMPIUTO NEL 2008 SU 800 CITTADINI RESIDENTI IN 8 COMUNI DELLE PROVINCE DI NAPOLI E CASERTA.

I RISULTATI DOVEVANO ESSERE PUBBLICATI NEL 2009.

LE ANALISI RIGUARDAVANO I DOSAGGI DI DIOSSINE, FURANI, POLICLOROBIFENILI E METALLI PESANTI NEL SANGUE E NEL LATTE MATERNO.

SIAMO NEL 2010 E NESSUNO HA ANCORA COMUNICATO O PUBBLICATO I RISULTATI DI QUESTO STUDIO.

VOGLIAMO SAPERE PERCHE'?

COSA NASCONDE IL SILENZIO?

Comunicato-appello del 2 giugno 2010.
a cura di Assocampaniafelix

martedì 8 giugno 2010

San Nicola La Strada - Acqua dei pozzi, vietati tutti gli usi

Da Il Mattino del 06/06/2010
di Lucio Bernardo

San Nicola La Strada. L'amministrazione comunale invita a non usare l'acqua dei pozzi della zona ex Saint Gobain. L'uso domestico dell'acqua dei pozzi è vietato per legge, ma il primo cittadino sannicolese Angelo Pascariello va oltre. Il sindaco informa che dai dati Arpac trasmessi dalla Provincia e dalla Prefettura e relativi agli esiti delle analisi effettuate sui campioni delle acque sotterranee prelevati dai pozzi ubicati nell'area ex Saint Gobain, emerge che i valori eccedono i limiti di legge per quanto riguarda la concentrazione di arsenico e di metalli tossici. Un grave pericolo per la salute. Di qui lo stop anche per qualsiasi altro uso, compresa l’irrigazione. Per i sannicolesi, l'Arpac ha solo chiarito quello che tutti sapevano e tutti si aspettavano, cioè che le falde acquifere della zona sono inquinate. Nulla di nuovo dunque, visto che per oltre trenta anni nella zona è stata attiva la fabbrica di vetri della Saint Gobain, i cui scarti utilizzati per la produzione e la lucidatura del vetro, sono stati scaricati nelle cave di tufo esistenti lungo la via Appia. Allora non c'erano le norme protettive e di salvaguardia della salute pubblica di oggi, si scaricava l'acqua utilizzata per la produzione del vetro nelle cave - in tanti la utilizzavano come piscina in estate - poi con il passare degli anni, evaporando l'acqua, rimaneva un'immensa distesa di colore bianco o di colore rossastro. Con il passare del tempo e la cessione della fabbrica, i terreni sono stati bonificati e oggi ospitano attività commerciali ed abitazioni, ma quello che c'è sotto, in profondità, emerge oggi con gli esami dei pozzi. Contigua a questa zona c'è quella della discarica di «Lo Uttaro». È possibile che l’inquinamento sia aumentato anche a causa di questa vicinanza. L'acqua dei pozzi non si può utilizzare, ma anche quella che scorre dai rubinetti «ufficiali» della Regione Campania è, per altre ragioni, fonte di preoccupazioni. Il sindaco Pascariello infatti a seguito delle diverse lamentele dei cittadini circa la diversa qualità dell'acqua erogata (in molti hanno segnalato variazioni nella temperatura, nel sapore e nel colore rispetto a quella erogata nei mesi scorsi; disagi accompagnati da un notevole calo di pressione che provoca problemi per l'accensione di caldaie), ha inviato una richiesta alla Regione Campania (Gestione Acquedotto ex Casmez e Servizio Acquedotto) e per conoscenza all'Azienda Sanitaria Locale - Distretto 25 di Caserta, per chiedere notizie e per conoscere quando si tornerà alla normalità.

lunedì 7 giugno 2010

A Carinaro un convegno su rifiuti, stili di vita e salute


Il “WWF Agro Aversano-Napoli nord e Litorale Domizio” in partnership con le Associazioni di volontariato

“AVIS Carinaro” e “Sinistra 2000”, organizza un convegno dal titolo RIFIUTI, SALUTE E STILI DI VITA” con medici ed esperti del settore ambiente

per discutere dei rischi per la salute connessi all’inquinamento da rifiuti e delle strategie di miglioramento della qualità della vita. L’incontro si terrà a Carinaro (CE), l’11 Giugno 2010, alle ore 18:00, presso la sala conferenze della Chiesa di Sant’Eufemia.

Interverranno: dott. Alessandro Gatto (presidente del WWF Campania), dott. Antonio Marfella (Oncologo,

Tossicologo presso l’Istituto G. Pascale di Napoli).

Apertura del poeta Sossio Bencivenga.

Modera l’incontro: dott. Francesco Autiero (presidente del WWF Agro Aversano-Napoli nord e Litorale Domizio).


nelle foto (di Franco Spinelli) in ordine: Francesco Autiero, Alessandro Gatto e Antonio Marfella

per maggiori info:

WWF Agro Aversano-Napoli nord e Litorale Domizio

http://www.wwfaversa.it/

venerdì 4 giugno 2010

Nè diavolo nè santo: solo Saviano

Parla il professor Barbagallo, storico
della Camorra: Gomorra è un libro importante, Roberto è bravo. Ma ha un’eccessiva tendenza al martirio.

“Go! Morra. C’amorra go! ‘O cunte de bucie (nero su bianco)…
Cca nun se fanno nome, strummolo co spavo…”. E ora, quella che promette di diventare la moda dell’estate, l’attacco a “Gomorra” e a Roberto Saviano, diventa anche un rap. Scritto da Daniele Sepe, uno dei più originali musicisti napoletani. Comunista doc, irriverente fino alla dissacrazione, Sepe mette in musica il suo giudizio sul best-seller, “il racconto delle bugie”, e sul suo autore, uno che non fa mai nomi di politici, quindi da liquidare con una frase che in dialetto napoletano (“strummolo co spavo”, trottola da muovere con un filo di spago), suona ancora più offensiva. Insomma, non bastava il saggio di Dal Lago sull’eroe di cartone, l’accusa (poi malamente ritirata) di aver sfruttato le sofferenze di Napoli del calciatore Borriello, ora anche un rap. Chiediamo a Francesco Barbagallo, nella sua doppia veste di professore di Storia dell’Università Federico II di Napoli che ha conosciuto Saviano giovane laureato, e di studioso della camorra, cosa sta succedendo. “Semplice nella sua drammaticità: in Italia non ti perdonano il successo e la fama. In questo paese contano due cose: i soldi e l’apparire in tv. Roberto Saviano ha tutto questo, per molti è insopportabile, quindi va distrutto. Io capisco le critiche anche feroci, ma gli attacchi violenti no. Definire Saviano un eroe di carta è una denigrazione tanto feroce quanto infondata”.

Il giudizio è di Dal Lago, Daniele Sepe, però, in un’intervista dice che Saviano non è un esperto e che se si vuole sapere qualcosa di serio sul rapporto tra camorra e politica bisogna leggere il libro di Barbagallo “Napoli fine Novecento”.

Sepe è un artista e parla con la pancia, ma Dal Lago no, è uno studioso di valore e come tale ha il dovere di analizzare i fenomeni nella loro complessità.

Lei ha conosciuto il Saviano degli esordi.

Sì, nel 2004. Era uno sconosciuto, scriveva sul Manifesto e Diario per poche decine di euro. Era bravo, ricordo che interveniva in tutte le occasioni nella quali si parlava della camorra e dei suoi rapporti con la politica, e lo faceva con grande capacità di analisi. Ha sempre avuto una grande forza d’animo, ma con un limite di fondo.

Quale?

Il desiderio spasmodico di lottare contro la camorra ma con una tendenza eccessiva al martirio, tanto che a un certo punto della sua vicenda, tentò di prendere le distanze. Non era contento del clima che gli si stava creando intorno. Ricordo che una volta, prima di “Gomorra”, venne da me dicendomi che i carabinieri gli avevano proposto di entrare nella loro intelligence o nei reparti speciali. Gli consigliai di continuare a fare le cose che sapeva fare e gli chiesi un saggio per una rivista.

Poi Gomorra e il successo.

Di quel libro si può discutere all’infinito, ma un merito gli va riconosciuto ed è enorme: aver portato all’attenzione mondiale la camorra e il suo potere. Gomorra ha inferto una ferita mortale al clan dei casalesi. Prima dell’uscita del libro nessuno sapeva quale impero si celasse dietro i vari Sandokan, Cicciotto ‘e mezzanotte etc, i magistrati del processo Spartacus erano soli. Diamo a Saviano questo merito storico, anche riconoscendo che in alcune occasioni ha ecceduto.

Quando?

Quando è andato a Casal di Principe e ha fatto in piazza i nomi dei camorristi, da allora quelli lo odiano e vogliono vederlo morto. La camorra, come tutte le mafie, ama il silenzio. I libri danno fastidio se vendono.

Lei ha scritto di camorra, “Napoli fine Novecento” e “Il potere della camorra”, libri importanti.

Le racconto una storia per capire “Gomorra” e riguarda proprio “Napoli fine Novecento”. Einaudi ne stampò 7 mila copie, il libro ne vendette 5 mila, un giorno mi telefonarono dalla casa editrice per dirmi che le altre duemila le avrebbero mandate al macero, e così fu. Erano altri tempi, il 1997 e il libro parlava molto di rapporti con la politica, ma con quel testo toccai un’area di lettori già sensibilizzati, il grande merito di “Gomorra” sta, invece, nell’aver raggiunto tutti. Ora sarà per le minacce ricevute, la mobilitazione dei premi Nobel, la tv, tutto quello che si vuole, ma con un solo libro Saviano è riuscito a raccontare a tutto il mondo il cancro che divora la Campania.

E ha fatto tanti soldi, questa è l’accusa più ricorrente.

E a cosa servono i soldi quando sei costretto a fare una vita d’inferno? Consiglio di vedere l’intervista di Saviano a “Current tv”, lì lo scrittore si confessa e svela la sua vita e quella dei suoi familiari costretti come lui a stare molto attenti. Chi attacca Saviano vuole dimostrare che si tratta di un eroe finto, un po’ come accadde a Giovanni Falcone. Lo distrussero e poi gli restituirono rispetto e credibilità, ma solo dopo Capaci.

da Il Fatto Quotidiano del 4 giugno 2010
nella foto (di Franco Spinelli) Roberto Saviano durante lo storico intervento di Casal di Principe

domenica 30 maggio 2010

Crisi di Sistema

di Giovanna Baer

Termovalorizzatori, incentivi pubblici e mafia: la lucrosa economia dei rifiuti

‘Emergenza’ e ‘soldi’, due parole chiave che puntualmente ricorrono sulla bocca dei vari commissari straordinari chiamati a risolvere il problema dei rifiuti in Campania, da Bassolino a De Gennaro a Bertolaso. Parrebbe quasi che il problema sia tutto lì, come al solito, nei soldi che non bastano mai. Mentre per quanto riguarda l’emergenza, come nota giustamente una delle ultime relazioni parlamentari d’inchiesta, “discorrere di un’emergenza che dura ormai da quattordici anni costituisce un evidente ossimoro”.
La situazione creata nella regione non è solo un problema locale, e i soldi non sono mancati: in quattordici anni, sempre sotto l’egida emergenziale, la Campania ha bruciato più di otto miliardi di euro, e fra risorse nazionali ed europee ne dovrebbe ricevere altri 12 nei prossimi anni “per il completamento del ciclo integrato dei rifiuti”, che nessuno sa se sia mai cominciato, o quando.
Non pare davvero che siano i soldi il problema. Infatti, ciò che urlano a gran voce, amplificati dai media, i vari commissari chiamati a combattere contro l’ossimoro, è che servono gli inceneritori, anzi, i termovalorizzatori, come affettuosamente sono definiti dalla folta schiera di fan piromani.
Termovalorizzatori e diossine
Che cos’è un termovalorizzatore? Né la legislazione italiana né quella europea conoscono questo termine, e parlano sempre e soltanto di inceneritori. La voce è stata coniata, probabilmente da chi l’ha progettato o da chi li costruisce a suon di centinaia di milioni di euro, per descrivere gli impianti di incenerimento di nuova generazione, in cui le alte temperature sviluppate durante la combustione possono essere recuperate per produrre vapore, il quale è a sua volta utilizzato per la produzione di energia elettrica oppure come vettore di calore, per esempio nel caso del teleriscaldamento: i rifiuti vanno in fumo e in più ci si guadagna. Bello, no?
No, per diverse ragioni.
La prima è che il termine è fuorviante, dal momento che secondo tutte le moderne teorie di gestione le uniche modalità per valorizzare i rifiuti sono il riuso e il riciclo, mentre l’incenerimento costituisce null’altro che smaltimento, tutt’al più con recupero energetico; secondariamente, il processo di incenerimento crea grossi problemi di igiene ambientale.
Poniamo il caso delle diossine, inquinanti organici persistenti e sottoposti alla Convenzione di Stoccolma. Sono classificate dagli organismi sanitari nazionali e internazionali, in particolare dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (AIRC), come “sicuramente cancerogene”, e si sviluppano quando materiale organico è bruciato in presenza di cloro, per esempio quello contenuto nel normale sale da cucina o nella plastica delle bottiglie d’acqua. Questa è la ragione per cui le autorità sanitarie, all’epoca della spazzatura per le strade, imploravano gli esasperati cittadini napoletani di non dare fuoco ai mucchi di immondizia maleodoranti: i roghi contenenti resti di cibo e plastiche avrebbero esalato i fumi venefici, sotto forma di polveri particolarmente sottili (particolati) che non si disperdono nell’atmosfera, ma si spostano coi venti finché non cadono a terra dove, attraverso il fenomeno del bioaccumulo, risalgono la catena alimentare umana concentrandosi via via, a partire dai vegetali, passando per gli animali (prima gli erbivori e poi i carnivori), per arrivare infine all’uomo. Data la loro tendenza ad accumularsi negli esseri viventi, anche un’esposizione prolungata a livelli minimi può recare danni gravissimi. La diossina è una sostanza molto stabile, come sottolinea Federico Valerio dell’Istituto dei tumori di Genova: “Ci vogliono decine di anni perché scompaia dai terreni contaminati e, assunta attraverso il cibo, si concentra nel tessuto adiposo. L’accumulo progressivo è la caratteristica più subdola e pericolosa di questa sostanza che, grazie al mercato globale, può colpire anche molto lontano dal luogo in cui si è formata. D’altro canto, per colpa di dissennate tecniche di alimentazione degli animali di allevamento che utilizzano grassi animali, la concentrazione della diossina aumenta, nell’ultimo anello della catena alimentare, anche migliaia di volte rispetto al valore iniziale, e l’ultimo anello della catena è sempre l’uomo”.
Gli inceneritori bruciano rifiuti che contengono sicuramente componenti organiche e composti del cloro, e dunque producono sempre diossina. Anzi, l’incenerimento dei rifiuti continua a essere la principale fonte di diossine sul nostro pianeta, e nel 1995 costituiva ancora il 40% delle emissioni complessive. Si sono tuttavia fatti passi avanti significativi nella loro riduzione: innanzitutto, attraverso la raccolta differenziata si può dividere la parte nobile, cioè riciclabile, dei rifiuti (plastica, vetro, alluminio, legno, metalli) da quella non riciclabile, con conseguente contrazione della quota totale da smaltire. Una ulteriore distinzione viene poi effettuata fra la parte organica (il cosiddetto umido) che viene trattata in modo da diventarecompost (fertilizzante per l’agricoltura) e la parte secca che, attraverso impianti di combustibile da rifiuti (CDR) viene trasformata in ecoballe. Solo le ecoballe, che devono rispondere a precise caratteristiche normative, possono essere bruciate negli inceneritori.
Secondariamente, è fondamentale controllare i parametri della combustione e della post combustione, perché il livello delle diossine si abbatte drasticamente sopra gli 850 gradi di temperatura, ed effettuare in aggiunta un intervento specifico di chemiassorbimento, ossia fare condensare i vapori di diossina sulla superficie di carboni attivi, che li assorbono come una specie di spugna.
Sembra facile, ma non lo è.
Come spiega Guido Viale, economista ambientale, “innanzitutto i rifiuti sono un materiale molto poco omogeneo, con grandi variazioni di potere calorifico: basta uno sbalzo di temperatura e l’abbattimento degli inquinanti va in tilt, e sempre nella speranza che nel materiale conferito non siano state nascoste sostanze tossiche come nelle ecoballe campane (contenenti arsenico, n.d.a.)”.
C’è poi il problema della filtrazione della polvere di carbone esausta, cioè impregnata di diossina, che è altamente pericolosa ed è considerata rifiuto speciale, da sotterrare quindi in discariche ad hoc.
Ciononostante, la quantità di diossina prodotta anche da un inceneritore di ultima generazione è tutt’altro che trascurabile: “In un anno – conferma Federico Valerio – un impianto moderno emette in atmosfera circa 250 miliardi di picogrammi (miliardesima parte di un milligrammo, n.d.a.) di diossina, mentre una quantità cento volte superiore è contenuta nelle sue ceneri di filtrazione. Oggi in Italia la quantità di diossina prodotta pro capite, 16.8 microgrammi, è già superiore alla media europea (13.2 microgrammi), anche senza nuovi impianti di combustione. Il Belgio, che ha fatto la scelta di incenerire il 54% dei suoi rifiuti, guida – guarda caso – la classifica, con ben 45.2 microgrammi di diossina pro capite”.
E la diossina è solo uno degli inquinanti che compongono il mix di fumi emessi. Le ricerche scientifiche mostrano risultati chiarissimi: chi vive nelle vicinanze di un inceneritore corre un rischio sensibilmente più alto di contrarre il cancro. La relazione realizzata dall’Istituto oncologico veneto e dall’Assessorato alle politiche sanitarie della Regione Veneto intitolata Il rischio di sarcoma in rapporto all’esposizione ambientale a diossine emesse dagli inceneritori: studio caso controllo nella provincia di Venezia, per citare solo una delle pubblicazioni sull’argomento, afferma a conclusione delle indagini che “nella popolazione esaminata risulta un significativo eccesso di rischio di sarcoma, correlato sia alla durata che alla intensità dell’esposizione”, e che “gli inceneritori con più alto tasso di rilascio in atmosfera sono stati quelli che bruciavano rifiuti urbani”. Per di più il rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Trattamento dei rifiuti in Campania: impatto sulla salute umana. Correlazione fra rischio ambientale da rifiuti, mortalità e malformazioni congenite) mostra nella regione una situazione già gravemente compromessa: più 12% di patologie tumorali rispetto alla media italiana. Alla voce dell’Oms si aggiunge quella dell’autorevole rivista The Lancet Oncology che ha denunciato, fin dal settembre 2004, un aumento dei tumori al fegato del 24% nei territori delle discariche, mentre i casi di danni fetali sono, in queste zone, l’80% in più rispetto alla media nazionale.
Nessuna sorpresa che le popolazioni interessate non vogliano nemmeno sentire parlare di inceneritori, viste le precarie condizioni sanitarie, ben oltre lo stato d’allarme, in cui già ora sono costrette a vivere. La domanda è: perché invece politici e opinion maker li vogliono disperatamente?
Energia dai rifiuti?
Occorre sgombrare il campo da un altro equivoco, e cioè che il termovalorizzatore sia un investimento economico conveniente, se non igienico (ma su questo aspetto i sostenitori sorvolano o minimizzano), dal momento che produce energia, tanto più preziosa quanto più elevato risulta il deficit energetico del nostro Paese.
Marco Cattini, professore ordinario all’università Bocconi di Milano, non è per niente d’accordo: “Si pensa che con un inceneritore che crea energia bruciando rifiuti si possa trarre ricchezza da sostanze che andrebbero altrimenti occultate nelle discariche, e invece il vantaggio è solo apparente, tanto dal punto di vista ambientale quanto da quello economico. Dal punto di vista ambientale dopo l’incenerimento rimane da smaltire un volume di ceneri iperinquinanti che rappresenta comunque il 30% dei rifiuti bruciati, mentre gli impianti utilizzano e surriscaldano grandi quantità di acqua che viene poi reimmessa nelle falde. Dal punto di vista economico la produzione di energia da rifiuti è conveniente solo in ragione delle sovvenzioni pubbliche: senza di esse sarebbe più costosa di quella tradizionale”.
Sovvenzioni pubbliche, cioè centinaia di milioni di euro che finiscono nelle tasche dei gestori degli impianti, sotto forma di incentivi alla produzione di energia elettrica. Le modalità di finanziamento sono due: il pagamento maggiorato per otto anni dell’elettricità prodotta (incentivi Cip6), oppure il pagamento dei cosiddetti ‘certificati verdi’ che il gestore dell’impianto può rivendere nei successivi dodici anni.
Nel primo caso, sulla base della Circolare n. 6/1992 del Comitato interministeriale prezzi, chi gestisce l’inceneritore, per otto anni dalla sua costruzione, può vendere al GSE (la società a cui è affidato il compito di assicurare la fornitura di energia elettrica nel nostro Paese) la propria produzione elettrica a un costo triplo rispetto a chi produce elettricità usando metano, petrolio o carbone. I costi degli incentivi ricadono però sulla bolletta degli utenti, che comprende una tassa per il sostegno delle fonti rinnovabili. In pratica, si chiede al cittadino di pagare di più perché si tratta – e questo è un altro ossimoro – di energia pulita. Per esempio la società ASM spa, che gestisce il tanto osannato inceneritore di Brescia, ha ricevuto nel 2006 contributi per oltre 71 milioni di euro, tutti pagati dai consumatori finali.
I certificati verdi invece corrispondono a una certa quantità di emissioni di CO2: se un impianto produce energia da fonti rinnovabili emettendo meno CO2 rispetto a un impianto alimentato da fonti fossili, il gestore ottiene dei certificati verdi rivendibili a quelle industrie o attività le quali, sebbene obbligate per legge a produrre una quota di energia mediante fonti rinnovabili, non lo fanno in maniera autonoma.
Chi guadagna dunque da un inceneritore? Chi lo costruisce, chi lo gestisce, e tutte le aziende che comprano coi certificati la possibilità di aggirare la norma dello Stato che le obbliga a ridurre la propria emissione di inquinanti.
Chi ci perde? L’ambiente e i cittadini, spolpati da un Robin Hood all’opposto, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Nel nostro Paese di grandi industriali attaccati alla mammella dello Stato, entrano le sovvenzioni, esce l’economia. Trasi munnezza, esce oro.
Come è chiaro, il gioco funziona se i rifiuti vengono considerati fonte rinnovabile. L’Italia li considera tali, ma qualcuno si è messo di traverso. Secondo la normativa europea, solo la parte organica dei rifiuti può essere considerata rinnovabile (il cosiddetto umido), mentre la parte restante non è altro che materiale da smaltimento, per il quale è esclusa esplicitamente la valenza di recupero.
Pertanto, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia per gli incentivi dati dal governo per produrre energia bruciando rifiuti inorganici, considerati dal nostro ordinamento (ingenuamente? colposamente? dolosamente?) ‘fonte rinnovabile’. Ecco le affermazioni testuali del Commissario all’energia: “La Commissione conferma che, ai sensi dell’articolo 2, lettera b, della Direttiva 2001/77/CE del 27 settembre 2001 sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la frazione non biodegradabile dei rifiuti non può essere considerata fonte di energia rinnovabile”. Il fatto che nell’atto di recepimento della (chiarissima) direttiva comunitaria, la legge italiana includa i rifiuti fra le fonti ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, rende l’infrazione certa e palese.
Tuttavia senza incentivi, principale fonte di guadagno delle società di gestione, gli inceneritori smettono di essere remunerativi: prova ne sia l’intensa attività di pressione esercitata sul Parlamento affinché essi non vengano cancellati dalle varie leggi finanziarie. Per eliminare l’infrazione alle norme europee le recenti disposizioni hanno escluso dagli incentivi tutte le fonti assimilate a quelle rinnovabili, ivi compresi i rifiuti, ma hanno concesso deroga “agli impianti realizzati e operativi”. Sono inoltre previste delle eccezioni per gli impianti già autorizzati, ma non ancora operativi, con priorità a quelli in realizzazione. L’eterna emergenza campana non merita forse un’eccezione?
Il caso Campania
Nell’estate 1997 il governatore della Campania e commissario speciale ai rifiuti, Antonio Rastrelli, candidato di Alleanza Nazionale (ma lui si definisce fascista) eletto due anni prima per la lista del Polo delle Libertà, vara finalmente il Piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti. Il piano prevede: il trattamento dei rifiuti ingombranti; un adeguato sistema di trasporti; la separazione, grazie alla raccolta differenziata, delle frazioni nobili da quelle umide e piazzole per lo stoccaggio temporaneo. “In teoria – afferma Antonello Caporale nel suo Impuniti (Baldini Castaldi Dalai Editore, 2007) – un ciclo virtuoso che dovrebbe portare addirittura alla scomparsa delle discariche, considerato che dei rifiuti non si dovrebbe buttare niente, fra la trasformazione in concime e la produzione di energia. Fiore all’occhiello del piano sono infatti la costruzione di sette impianti di CDR (combustibile da rifiuti) e due inceneritori con recupero energetico”. I CDR dovrebbero produrre le ecoballe da inviare ai termovalorizzatori.
Rastrelli fa appena in tempo ad avviare il bando per l’aggiudicazione dell’intero servizio di smaltimento, realizzazione delle strutture compresa, che viene ribaltato dai mastelliani passati al centro-sinistra. La procedura utilizzata per la gara sarà quella della licitazione privata, e pertanto vi potranno partecipare soltanto le imprese invitate dall’Amministrazione, ossia gli amici. Presidente della Regione diventa l’ex Dc Andrea Losco e il mega-appalto viene vinto dalla Fibe-Fisia che fa capo all’Impregilo, l’azienda italiana leader nelle costruzioni controllata da Cesare Romiti (quello della Fiat, a proposito di amici) e dai suoi figli. A essere decisivo non è solo il prezzo, il più basso per ogni chilo di rifiuti: 83 lire contro le 110 richieste dalla cordata rivale guidata dall’Enel, che pure riporta i punteggi più alti quanto alle caratteristiche tecniche e al valore dell’opera, ma anche i tempi di messa in esercizio degli impianti: 300 giorni contro 395. Con la scusa dello stato di emergenza, infatti, “l’aggiudicazione avviene tenendo conto soprattutto delle tempistiche di realizzazione tralasciando valutazioni di carattere scientifico e rinunciando a ogni previsione di impatto ambientale” (Beni Trezza in La guerra dei rifiuti, Edizioni Alegre 2007).
L’investimento iniziale è previsto in 670 milioni di euro e inoltre, per perseguire l’obiettivo di raccolta differenziata previsto dal piano, nel 1999 viene avviato l’impiego a tempo determinato nei consorzi di bacino di lavoratori socialmente utili (i disoccupati campani arriveranno a versare fino a otto milioni di lire per essere inseriti nelle liste dei consorzi), sulla base di un progetto presentato da Italia Lavoro spa – agenzia del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, del ministero della Solidarietà sociale e delle altre amministrazioni centrali dello Stato – per la promozione e la gestione di azioni nel campo delle politiche del lavoro, dell’occupazione e dell’inclusione sociale. Oggi il numero dei lavoratori risulta essere superiore a 2.400 e il loro utilizzo trasformato a tempo indeterminato con una ordinanza commissariale del 2001, a fronte di percentuali di raccolta differenziata del tutto irrisorie (intorno al 10%) rispetto al costo sostenuto: più di 60 milioni di euro all’anno solo per le retribuzioni.
Nel 2000 viene eletto Bassolino, e anche lui assomma alla carica ordinaria di presidente della Regione quella straordinaria di commissario ai rifiuti. I siti individuati per la costruzione degli impianti di CDR sono Caivano, Tufino e Giugliano (Napoli), Battipaglia (Salerno), Pianodardine (Avellino), Casalduni (Benevento) e Santa Maria Capua Vetere (Caserta), fra le proteste delle popolazioni coinvolte, giustamente allarmate dalle proiezioni di impatto ambientale: inquinamento e malattie mortali in ulteriore aumento.
I ritardi cominciano ad accumularsi, in parte per i problemi di localizzazione ma soprattutto perché i tempi indicati in appalto sono di un’inconsistenza risibile. L’implosione causata dal mancato rispetto delle previsioni sfocia nel 2001 in quella che è stata considerata la prima ‘emergenza nell’emergenza’: nelle discariche operanti finisce lo spazio disponibile perché i volumi sono saturi. Per permettere all’Impregilo di andare avanti col piano è necessario l’intervento del commissario Bassolino, il quale dà ordine di riattivare diversi siti, alcuni da tempo esauriti o chiusi dall’autorità giudiziaria per la loro pericolosità, creando così le condizioni del disastro ambientale. Intanto si procede al reperimento di nuove aree di stoccaggio, anche provvisorio, in cui i rifiuti possono essere ammessi tal quali, senza il rispetto di alcuna minima norma di sicurezza.
I cittadini campani assistono sconvolti allo spettacolo della disperata ricerca di buchi in cui rovesciare schifezze più o meno tossiche, mentre le autorità fingono di ignorare come fra i ‘possessori di buchi’ un posto in prima fila sia riservato ad aziende di proprietà della Camorra. In Campania, infatti, il monopolio delle costruzioni fa capo alle attività dei clan e per le costruzioni c’è bisogno di sabbia, e per la sabbia di cave. Quando queste si esauriscono, si trasformano in eccellenti siti di stoccaggio, che possono essere venduti a peso d’oro e senza troppi controlli grazie alla pressione emergenziale. Altre cave dismesse o terreni abbandonati verranno acquistati da parte di prestanome dei boss e rivenduti nello stesso giorno alla Impregilo, con atti stipulati dal medesimo notaio, a prezzi maggiorati fino a cinque volte. Di nuovo, trasi munnezza, esce oro.
Nel frattempo, i lavori di costruzione dei CDR e quelli dei due termovalorizzatori sono completamente sfasati: ad Acerra, dove sarebbero dovuti terminare nel 2008, sono stati completati solo a giugno 2009, mentre a Santa Maria la Fossa non sono ancora iniziati. Per di più, a causa del completo fallimento della raccolta differenziata, gli impianti di CDR lavorano come peggio non si potrebbe. Rileva una delle relazioni delle inchieste parlamentari: “Il CDR prodotto non risponde ai requisiti richiesti: fra le molte anomalie sono state rinvenute percentuali di arsenico superiori ai limiti imposti, oltre che a oggetti interi, a esempio una ruota completa di cerchione e pneumatico. Il cosiddetto CDR analizzato è pertanto da definirsi semplicemente rifiuto solido urbano tal quale”. Quindi, come nota giustamente Antonello Caporale, le ecoballe prodotte non hanno niente di eco, sono balle e basta. In compenso, dal 1994 al 2004 le somme impegnate dal commissariato ammontano a quasi 900 milioni di euro, a cui va aggiunto il costo dei lavoratori socialmente utili, 145 milioni di euro.
Non sono le uniche cifre del collasso. L’inadempimento da parte di Impregilo degli obblighi contrattuali, certificato nel 2005 (commissario Catenacci), ha portato alla formale risoluzione del contratto, sancito dal dl n.245/05 e convertito in legge il 27 gennaio 2006. Il 31 luglio 2007 la procura della Repubblica di Napoli ha chiesto il rinvio a giudizio di Antonio Bassolino, commissario straordinario per l’emergenza rifiuti dal maggio 2000 al febbraio 2004, di Piergiorgio e Paolo Romiti, e di altre 25 persone fra pubblici funzionari e dirigenti Impregilo. I reati ipotizzati dai pm partenopei sono truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato e frode in pubbliche forniture. Ad aprile 2009 una nuova inchiesta denominata ‘Rompiballe’ travolge Guido Bertolaso e il suo braccio destro nell’emergenza rifiuti, Marta Di Gennaro, insieme ad altre 24 persone, tutti indagati per traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa ai danni dello Stato.
Dal nord al sud, il lucroso ciclo dei rifiuti
I rifiuti sono un enorme business, e ci guadagnano tutti: sono una risorsa per le imprese, per la politica, per la Camorra, una risorsa pagata maciullando i corpi e avvelenando le terre. Ci si ostina a considerare il dato emergenziale come un problema locale, quando sarebbe sufficiente valutarlo con attenzione per risalire in dimensione, da regionale a nazionale, da nazionale a internazionale. Certo, su nessun manuale di economia si parla della criminalità organizzata come di un gruppo di imprenditori modello, necessari al buon funzionamento del Sistema, ma la realtà è questa.
Lo smaltimento è un costo che nessuna azienda sente come necessario, sebbene i rifiuti rappresentino sempre il sottoprodotto, molto spesso gravemente tossico, della fabbricazione di beni. La figura che i clan camorristici si sono inventati per gestire questa miniera d’oro è quella dellostakeholder, ossia del mediatore. Laureati, bella presenza, si diventa mediatori dopo qualche anno passato in Usa o in Inghilterra a specializzarsi in politiche dell’ambiente, per imparare come si trattano i rifiuti tossici, come aggirare le norme, come avvicinare la comunità imprenditoriale con scorciatoie clandestine. Gli stakeholder campani si presentano quindi dai proprietari delle imprese chimiche, delle concerie, delle fabbriche di plastica di tutto il Paese e propongono il loro listino prezzi. A differenza dei mediatori legali, sono in grado di offrire un servizio tutto incluso (trasporto compreso), e per di più a prezzi bassissimi: il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici varia da 21 a 62 centesimi al chilo, e i clan forniscono lo stesso servizio a 9 o 10 centesimi al chilo. Per esempio, questi individui sono riusciti nel 2004 a garantire che 800 tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, di proprietà di un’azienda chimica, fossero trattate a 25 centesimi al chilo, con un risparmio dell’80% sui prezzi ordinari.
Unendo tutti i dati emersi dalle inchieste condotte dalla procura di Napoli e da quella di Santa Maria Capua Vetere dalla fine degli anni ’90 al 2007, è possibile quantificare il vantaggio economico per le imprese che si sono rivolte alla Camorra in 500 milioni di euro. Ma, poiché le inchieste giudiziarie hanno scoperto solo una percentuale parziale delle infrazioni, ne deriva che moltissime aziende del nord Italia sono riuscite a crescere, ad assumere, a rendere competitivo l’intero sistema industriale del Paese al punto da poterlo spingere in Europa, anche grazie ai vantaggi di costo assicurati dall’intervento della criminalità organizzata. L’operazione Cassiopea del 2003 ha dimostrato che ogni settimana partivano dalle regioni del nord quaranta tir ricolmi di rifiuti – cadmio, zinco, scarti di vernici, fanghi da depuratori, plastiche, arsenico, piombo – che venivano sversati o interrati nel territorio campano, trasformandolo in un’unica, enorme discarica. Si stima che negli ultimi cinque anni in Campania siano stati smaltiti illegalmente circa tre milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui un milione nella sola provincia di Caserta.
Ma le cose non funzionano così solo in Italia: gli stakeholder cinesi, allievi dei clan nostrani, hanno imparato a trattare con le aziende europee, sempre a caccia di nuovi modi per migliorare la propria competitività, e propongono loro prezzi e soluzioni efficaci. A Rotterdam la polizia portuale olandese ha scoperto nel 2005, in partenza per la Cina, mille tonnellate di rifiuti urbani inglesi spacciati per carta da riciclare. Un milione di tonnellate di rifiuti high tech partono ogni anno dall’Europa e vengono sversati nella provincia di Hong Kong, intombati, stipati sottoterra, affondati nei laghi artificiali. Come nel casertano. Per non parlare delle cosiddette ‘navi dei rifiuti’ gestite dalla ‘ndrangheta, di cui ancora poco sappiamo se non che ce le troviamo in fondo ai nostri mari, da chissà quanti anni. Mentre nuovi territori da convertire a discarica sono quelli delle vie del narcotraffico, Albania e Costarica, ma anche Romania, Mozambico, Somalia e Nigeria. Da Milano a Napoli, da Londra a Guiyu, trasi munnezza, esce oro.
La Camorra sembra chiami se stessa “il sistema”. Così imprese, politici, stakeholder non lavorano per i clan, ma per il sistema. Questo non è un paradosso, quando si comincia a intravedere che non esistono due entità distinte, una illegale al sud e una legale al nord, ma due organismi profondamente interrelati, che hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere: dal sistema al Sistema. La chiamata di Gianni De Gennaro prima, e di Guido Bertolaso poi, a commissari straordinari, appare a questo punto assolutamente in linea con la più abietta continuità: l’emergenza campana va risolta senza compromettere l’ordine pubblico. L’ordine che prima degli interessi dei cittadini serve gli interessi dell’economia, legale e illegale, e della politica sua ancella. Prova ne sia la natura del mandato che ha permesso loro di agire anche in deroga alle leggi sulla salute e sull’ambiente: gli interessi di chi fa affari sono gli unici beni da difendere, e se i bambini nascono malformati, le banconote no.
di Giovanna Baer
26 maggio 2010