domenica 30 maggio 2010

Crisi di Sistema

di Giovanna Baer

Termovalorizzatori, incentivi pubblici e mafia: la lucrosa economia dei rifiuti

‘Emergenza’ e ‘soldi’, due parole chiave che puntualmente ricorrono sulla bocca dei vari commissari straordinari chiamati a risolvere il problema dei rifiuti in Campania, da Bassolino a De Gennaro a Bertolaso. Parrebbe quasi che il problema sia tutto lì, come al solito, nei soldi che non bastano mai. Mentre per quanto riguarda l’emergenza, come nota giustamente una delle ultime relazioni parlamentari d’inchiesta, “discorrere di un’emergenza che dura ormai da quattordici anni costituisce un evidente ossimoro”.
La situazione creata nella regione non è solo un problema locale, e i soldi non sono mancati: in quattordici anni, sempre sotto l’egida emergenziale, la Campania ha bruciato più di otto miliardi di euro, e fra risorse nazionali ed europee ne dovrebbe ricevere altri 12 nei prossimi anni “per il completamento del ciclo integrato dei rifiuti”, che nessuno sa se sia mai cominciato, o quando.
Non pare davvero che siano i soldi il problema. Infatti, ciò che urlano a gran voce, amplificati dai media, i vari commissari chiamati a combattere contro l’ossimoro, è che servono gli inceneritori, anzi, i termovalorizzatori, come affettuosamente sono definiti dalla folta schiera di fan piromani.
Termovalorizzatori e diossine
Che cos’è un termovalorizzatore? Né la legislazione italiana né quella europea conoscono questo termine, e parlano sempre e soltanto di inceneritori. La voce è stata coniata, probabilmente da chi l’ha progettato o da chi li costruisce a suon di centinaia di milioni di euro, per descrivere gli impianti di incenerimento di nuova generazione, in cui le alte temperature sviluppate durante la combustione possono essere recuperate per produrre vapore, il quale è a sua volta utilizzato per la produzione di energia elettrica oppure come vettore di calore, per esempio nel caso del teleriscaldamento: i rifiuti vanno in fumo e in più ci si guadagna. Bello, no?
No, per diverse ragioni.
La prima è che il termine è fuorviante, dal momento che secondo tutte le moderne teorie di gestione le uniche modalità per valorizzare i rifiuti sono il riuso e il riciclo, mentre l’incenerimento costituisce null’altro che smaltimento, tutt’al più con recupero energetico; secondariamente, il processo di incenerimento crea grossi problemi di igiene ambientale.
Poniamo il caso delle diossine, inquinanti organici persistenti e sottoposti alla Convenzione di Stoccolma. Sono classificate dagli organismi sanitari nazionali e internazionali, in particolare dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (AIRC), come “sicuramente cancerogene”, e si sviluppano quando materiale organico è bruciato in presenza di cloro, per esempio quello contenuto nel normale sale da cucina o nella plastica delle bottiglie d’acqua. Questa è la ragione per cui le autorità sanitarie, all’epoca della spazzatura per le strade, imploravano gli esasperati cittadini napoletani di non dare fuoco ai mucchi di immondizia maleodoranti: i roghi contenenti resti di cibo e plastiche avrebbero esalato i fumi venefici, sotto forma di polveri particolarmente sottili (particolati) che non si disperdono nell’atmosfera, ma si spostano coi venti finché non cadono a terra dove, attraverso il fenomeno del bioaccumulo, risalgono la catena alimentare umana concentrandosi via via, a partire dai vegetali, passando per gli animali (prima gli erbivori e poi i carnivori), per arrivare infine all’uomo. Data la loro tendenza ad accumularsi negli esseri viventi, anche un’esposizione prolungata a livelli minimi può recare danni gravissimi. La diossina è una sostanza molto stabile, come sottolinea Federico Valerio dell’Istituto dei tumori di Genova: “Ci vogliono decine di anni perché scompaia dai terreni contaminati e, assunta attraverso il cibo, si concentra nel tessuto adiposo. L’accumulo progressivo è la caratteristica più subdola e pericolosa di questa sostanza che, grazie al mercato globale, può colpire anche molto lontano dal luogo in cui si è formata. D’altro canto, per colpa di dissennate tecniche di alimentazione degli animali di allevamento che utilizzano grassi animali, la concentrazione della diossina aumenta, nell’ultimo anello della catena alimentare, anche migliaia di volte rispetto al valore iniziale, e l’ultimo anello della catena è sempre l’uomo”.
Gli inceneritori bruciano rifiuti che contengono sicuramente componenti organiche e composti del cloro, e dunque producono sempre diossina. Anzi, l’incenerimento dei rifiuti continua a essere la principale fonte di diossine sul nostro pianeta, e nel 1995 costituiva ancora il 40% delle emissioni complessive. Si sono tuttavia fatti passi avanti significativi nella loro riduzione: innanzitutto, attraverso la raccolta differenziata si può dividere la parte nobile, cioè riciclabile, dei rifiuti (plastica, vetro, alluminio, legno, metalli) da quella non riciclabile, con conseguente contrazione della quota totale da smaltire. Una ulteriore distinzione viene poi effettuata fra la parte organica (il cosiddetto umido) che viene trattata in modo da diventarecompost (fertilizzante per l’agricoltura) e la parte secca che, attraverso impianti di combustibile da rifiuti (CDR) viene trasformata in ecoballe. Solo le ecoballe, che devono rispondere a precise caratteristiche normative, possono essere bruciate negli inceneritori.
Secondariamente, è fondamentale controllare i parametri della combustione e della post combustione, perché il livello delle diossine si abbatte drasticamente sopra gli 850 gradi di temperatura, ed effettuare in aggiunta un intervento specifico di chemiassorbimento, ossia fare condensare i vapori di diossina sulla superficie di carboni attivi, che li assorbono come una specie di spugna.
Sembra facile, ma non lo è.
Come spiega Guido Viale, economista ambientale, “innanzitutto i rifiuti sono un materiale molto poco omogeneo, con grandi variazioni di potere calorifico: basta uno sbalzo di temperatura e l’abbattimento degli inquinanti va in tilt, e sempre nella speranza che nel materiale conferito non siano state nascoste sostanze tossiche come nelle ecoballe campane (contenenti arsenico, n.d.a.)”.
C’è poi il problema della filtrazione della polvere di carbone esausta, cioè impregnata di diossina, che è altamente pericolosa ed è considerata rifiuto speciale, da sotterrare quindi in discariche ad hoc.
Ciononostante, la quantità di diossina prodotta anche da un inceneritore di ultima generazione è tutt’altro che trascurabile: “In un anno – conferma Federico Valerio – un impianto moderno emette in atmosfera circa 250 miliardi di picogrammi (miliardesima parte di un milligrammo, n.d.a.) di diossina, mentre una quantità cento volte superiore è contenuta nelle sue ceneri di filtrazione. Oggi in Italia la quantità di diossina prodotta pro capite, 16.8 microgrammi, è già superiore alla media europea (13.2 microgrammi), anche senza nuovi impianti di combustione. Il Belgio, che ha fatto la scelta di incenerire il 54% dei suoi rifiuti, guida – guarda caso – la classifica, con ben 45.2 microgrammi di diossina pro capite”.
E la diossina è solo uno degli inquinanti che compongono il mix di fumi emessi. Le ricerche scientifiche mostrano risultati chiarissimi: chi vive nelle vicinanze di un inceneritore corre un rischio sensibilmente più alto di contrarre il cancro. La relazione realizzata dall’Istituto oncologico veneto e dall’Assessorato alle politiche sanitarie della Regione Veneto intitolata Il rischio di sarcoma in rapporto all’esposizione ambientale a diossine emesse dagli inceneritori: studio caso controllo nella provincia di Venezia, per citare solo una delle pubblicazioni sull’argomento, afferma a conclusione delle indagini che “nella popolazione esaminata risulta un significativo eccesso di rischio di sarcoma, correlato sia alla durata che alla intensità dell’esposizione”, e che “gli inceneritori con più alto tasso di rilascio in atmosfera sono stati quelli che bruciavano rifiuti urbani”. Per di più il rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Trattamento dei rifiuti in Campania: impatto sulla salute umana. Correlazione fra rischio ambientale da rifiuti, mortalità e malformazioni congenite) mostra nella regione una situazione già gravemente compromessa: più 12% di patologie tumorali rispetto alla media italiana. Alla voce dell’Oms si aggiunge quella dell’autorevole rivista The Lancet Oncology che ha denunciato, fin dal settembre 2004, un aumento dei tumori al fegato del 24% nei territori delle discariche, mentre i casi di danni fetali sono, in queste zone, l’80% in più rispetto alla media nazionale.
Nessuna sorpresa che le popolazioni interessate non vogliano nemmeno sentire parlare di inceneritori, viste le precarie condizioni sanitarie, ben oltre lo stato d’allarme, in cui già ora sono costrette a vivere. La domanda è: perché invece politici e opinion maker li vogliono disperatamente?
Energia dai rifiuti?
Occorre sgombrare il campo da un altro equivoco, e cioè che il termovalorizzatore sia un investimento economico conveniente, se non igienico (ma su questo aspetto i sostenitori sorvolano o minimizzano), dal momento che produce energia, tanto più preziosa quanto più elevato risulta il deficit energetico del nostro Paese.
Marco Cattini, professore ordinario all’università Bocconi di Milano, non è per niente d’accordo: “Si pensa che con un inceneritore che crea energia bruciando rifiuti si possa trarre ricchezza da sostanze che andrebbero altrimenti occultate nelle discariche, e invece il vantaggio è solo apparente, tanto dal punto di vista ambientale quanto da quello economico. Dal punto di vista ambientale dopo l’incenerimento rimane da smaltire un volume di ceneri iperinquinanti che rappresenta comunque il 30% dei rifiuti bruciati, mentre gli impianti utilizzano e surriscaldano grandi quantità di acqua che viene poi reimmessa nelle falde. Dal punto di vista economico la produzione di energia da rifiuti è conveniente solo in ragione delle sovvenzioni pubbliche: senza di esse sarebbe più costosa di quella tradizionale”.
Sovvenzioni pubbliche, cioè centinaia di milioni di euro che finiscono nelle tasche dei gestori degli impianti, sotto forma di incentivi alla produzione di energia elettrica. Le modalità di finanziamento sono due: il pagamento maggiorato per otto anni dell’elettricità prodotta (incentivi Cip6), oppure il pagamento dei cosiddetti ‘certificati verdi’ che il gestore dell’impianto può rivendere nei successivi dodici anni.
Nel primo caso, sulla base della Circolare n. 6/1992 del Comitato interministeriale prezzi, chi gestisce l’inceneritore, per otto anni dalla sua costruzione, può vendere al GSE (la società a cui è affidato il compito di assicurare la fornitura di energia elettrica nel nostro Paese) la propria produzione elettrica a un costo triplo rispetto a chi produce elettricità usando metano, petrolio o carbone. I costi degli incentivi ricadono però sulla bolletta degli utenti, che comprende una tassa per il sostegno delle fonti rinnovabili. In pratica, si chiede al cittadino di pagare di più perché si tratta – e questo è un altro ossimoro – di energia pulita. Per esempio la società ASM spa, che gestisce il tanto osannato inceneritore di Brescia, ha ricevuto nel 2006 contributi per oltre 71 milioni di euro, tutti pagati dai consumatori finali.
I certificati verdi invece corrispondono a una certa quantità di emissioni di CO2: se un impianto produce energia da fonti rinnovabili emettendo meno CO2 rispetto a un impianto alimentato da fonti fossili, il gestore ottiene dei certificati verdi rivendibili a quelle industrie o attività le quali, sebbene obbligate per legge a produrre una quota di energia mediante fonti rinnovabili, non lo fanno in maniera autonoma.
Chi guadagna dunque da un inceneritore? Chi lo costruisce, chi lo gestisce, e tutte le aziende che comprano coi certificati la possibilità di aggirare la norma dello Stato che le obbliga a ridurre la propria emissione di inquinanti.
Chi ci perde? L’ambiente e i cittadini, spolpati da un Robin Hood all’opposto, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Nel nostro Paese di grandi industriali attaccati alla mammella dello Stato, entrano le sovvenzioni, esce l’economia. Trasi munnezza, esce oro.
Come è chiaro, il gioco funziona se i rifiuti vengono considerati fonte rinnovabile. L’Italia li considera tali, ma qualcuno si è messo di traverso. Secondo la normativa europea, solo la parte organica dei rifiuti può essere considerata rinnovabile (il cosiddetto umido), mentre la parte restante non è altro che materiale da smaltimento, per il quale è esclusa esplicitamente la valenza di recupero.
Pertanto, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia per gli incentivi dati dal governo per produrre energia bruciando rifiuti inorganici, considerati dal nostro ordinamento (ingenuamente? colposamente? dolosamente?) ‘fonte rinnovabile’. Ecco le affermazioni testuali del Commissario all’energia: “La Commissione conferma che, ai sensi dell’articolo 2, lettera b, della Direttiva 2001/77/CE del 27 settembre 2001 sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la frazione non biodegradabile dei rifiuti non può essere considerata fonte di energia rinnovabile”. Il fatto che nell’atto di recepimento della (chiarissima) direttiva comunitaria, la legge italiana includa i rifiuti fra le fonti ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, rende l’infrazione certa e palese.
Tuttavia senza incentivi, principale fonte di guadagno delle società di gestione, gli inceneritori smettono di essere remunerativi: prova ne sia l’intensa attività di pressione esercitata sul Parlamento affinché essi non vengano cancellati dalle varie leggi finanziarie. Per eliminare l’infrazione alle norme europee le recenti disposizioni hanno escluso dagli incentivi tutte le fonti assimilate a quelle rinnovabili, ivi compresi i rifiuti, ma hanno concesso deroga “agli impianti realizzati e operativi”. Sono inoltre previste delle eccezioni per gli impianti già autorizzati, ma non ancora operativi, con priorità a quelli in realizzazione. L’eterna emergenza campana non merita forse un’eccezione?
Il caso Campania
Nell’estate 1997 il governatore della Campania e commissario speciale ai rifiuti, Antonio Rastrelli, candidato di Alleanza Nazionale (ma lui si definisce fascista) eletto due anni prima per la lista del Polo delle Libertà, vara finalmente il Piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti. Il piano prevede: il trattamento dei rifiuti ingombranti; un adeguato sistema di trasporti; la separazione, grazie alla raccolta differenziata, delle frazioni nobili da quelle umide e piazzole per lo stoccaggio temporaneo. “In teoria – afferma Antonello Caporale nel suo Impuniti (Baldini Castaldi Dalai Editore, 2007) – un ciclo virtuoso che dovrebbe portare addirittura alla scomparsa delle discariche, considerato che dei rifiuti non si dovrebbe buttare niente, fra la trasformazione in concime e la produzione di energia. Fiore all’occhiello del piano sono infatti la costruzione di sette impianti di CDR (combustibile da rifiuti) e due inceneritori con recupero energetico”. I CDR dovrebbero produrre le ecoballe da inviare ai termovalorizzatori.
Rastrelli fa appena in tempo ad avviare il bando per l’aggiudicazione dell’intero servizio di smaltimento, realizzazione delle strutture compresa, che viene ribaltato dai mastelliani passati al centro-sinistra. La procedura utilizzata per la gara sarà quella della licitazione privata, e pertanto vi potranno partecipare soltanto le imprese invitate dall’Amministrazione, ossia gli amici. Presidente della Regione diventa l’ex Dc Andrea Losco e il mega-appalto viene vinto dalla Fibe-Fisia che fa capo all’Impregilo, l’azienda italiana leader nelle costruzioni controllata da Cesare Romiti (quello della Fiat, a proposito di amici) e dai suoi figli. A essere decisivo non è solo il prezzo, il più basso per ogni chilo di rifiuti: 83 lire contro le 110 richieste dalla cordata rivale guidata dall’Enel, che pure riporta i punteggi più alti quanto alle caratteristiche tecniche e al valore dell’opera, ma anche i tempi di messa in esercizio degli impianti: 300 giorni contro 395. Con la scusa dello stato di emergenza, infatti, “l’aggiudicazione avviene tenendo conto soprattutto delle tempistiche di realizzazione tralasciando valutazioni di carattere scientifico e rinunciando a ogni previsione di impatto ambientale” (Beni Trezza in La guerra dei rifiuti, Edizioni Alegre 2007).
L’investimento iniziale è previsto in 670 milioni di euro e inoltre, per perseguire l’obiettivo di raccolta differenziata previsto dal piano, nel 1999 viene avviato l’impiego a tempo determinato nei consorzi di bacino di lavoratori socialmente utili (i disoccupati campani arriveranno a versare fino a otto milioni di lire per essere inseriti nelle liste dei consorzi), sulla base di un progetto presentato da Italia Lavoro spa – agenzia del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, del ministero della Solidarietà sociale e delle altre amministrazioni centrali dello Stato – per la promozione e la gestione di azioni nel campo delle politiche del lavoro, dell’occupazione e dell’inclusione sociale. Oggi il numero dei lavoratori risulta essere superiore a 2.400 e il loro utilizzo trasformato a tempo indeterminato con una ordinanza commissariale del 2001, a fronte di percentuali di raccolta differenziata del tutto irrisorie (intorno al 10%) rispetto al costo sostenuto: più di 60 milioni di euro all’anno solo per le retribuzioni.
Nel 2000 viene eletto Bassolino, e anche lui assomma alla carica ordinaria di presidente della Regione quella straordinaria di commissario ai rifiuti. I siti individuati per la costruzione degli impianti di CDR sono Caivano, Tufino e Giugliano (Napoli), Battipaglia (Salerno), Pianodardine (Avellino), Casalduni (Benevento) e Santa Maria Capua Vetere (Caserta), fra le proteste delle popolazioni coinvolte, giustamente allarmate dalle proiezioni di impatto ambientale: inquinamento e malattie mortali in ulteriore aumento.
I ritardi cominciano ad accumularsi, in parte per i problemi di localizzazione ma soprattutto perché i tempi indicati in appalto sono di un’inconsistenza risibile. L’implosione causata dal mancato rispetto delle previsioni sfocia nel 2001 in quella che è stata considerata la prima ‘emergenza nell’emergenza’: nelle discariche operanti finisce lo spazio disponibile perché i volumi sono saturi. Per permettere all’Impregilo di andare avanti col piano è necessario l’intervento del commissario Bassolino, il quale dà ordine di riattivare diversi siti, alcuni da tempo esauriti o chiusi dall’autorità giudiziaria per la loro pericolosità, creando così le condizioni del disastro ambientale. Intanto si procede al reperimento di nuove aree di stoccaggio, anche provvisorio, in cui i rifiuti possono essere ammessi tal quali, senza il rispetto di alcuna minima norma di sicurezza.
I cittadini campani assistono sconvolti allo spettacolo della disperata ricerca di buchi in cui rovesciare schifezze più o meno tossiche, mentre le autorità fingono di ignorare come fra i ‘possessori di buchi’ un posto in prima fila sia riservato ad aziende di proprietà della Camorra. In Campania, infatti, il monopolio delle costruzioni fa capo alle attività dei clan e per le costruzioni c’è bisogno di sabbia, e per la sabbia di cave. Quando queste si esauriscono, si trasformano in eccellenti siti di stoccaggio, che possono essere venduti a peso d’oro e senza troppi controlli grazie alla pressione emergenziale. Altre cave dismesse o terreni abbandonati verranno acquistati da parte di prestanome dei boss e rivenduti nello stesso giorno alla Impregilo, con atti stipulati dal medesimo notaio, a prezzi maggiorati fino a cinque volte. Di nuovo, trasi munnezza, esce oro.
Nel frattempo, i lavori di costruzione dei CDR e quelli dei due termovalorizzatori sono completamente sfasati: ad Acerra, dove sarebbero dovuti terminare nel 2008, sono stati completati solo a giugno 2009, mentre a Santa Maria la Fossa non sono ancora iniziati. Per di più, a causa del completo fallimento della raccolta differenziata, gli impianti di CDR lavorano come peggio non si potrebbe. Rileva una delle relazioni delle inchieste parlamentari: “Il CDR prodotto non risponde ai requisiti richiesti: fra le molte anomalie sono state rinvenute percentuali di arsenico superiori ai limiti imposti, oltre che a oggetti interi, a esempio una ruota completa di cerchione e pneumatico. Il cosiddetto CDR analizzato è pertanto da definirsi semplicemente rifiuto solido urbano tal quale”. Quindi, come nota giustamente Antonello Caporale, le ecoballe prodotte non hanno niente di eco, sono balle e basta. In compenso, dal 1994 al 2004 le somme impegnate dal commissariato ammontano a quasi 900 milioni di euro, a cui va aggiunto il costo dei lavoratori socialmente utili, 145 milioni di euro.
Non sono le uniche cifre del collasso. L’inadempimento da parte di Impregilo degli obblighi contrattuali, certificato nel 2005 (commissario Catenacci), ha portato alla formale risoluzione del contratto, sancito dal dl n.245/05 e convertito in legge il 27 gennaio 2006. Il 31 luglio 2007 la procura della Repubblica di Napoli ha chiesto il rinvio a giudizio di Antonio Bassolino, commissario straordinario per l’emergenza rifiuti dal maggio 2000 al febbraio 2004, di Piergiorgio e Paolo Romiti, e di altre 25 persone fra pubblici funzionari e dirigenti Impregilo. I reati ipotizzati dai pm partenopei sono truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato e frode in pubbliche forniture. Ad aprile 2009 una nuova inchiesta denominata ‘Rompiballe’ travolge Guido Bertolaso e il suo braccio destro nell’emergenza rifiuti, Marta Di Gennaro, insieme ad altre 24 persone, tutti indagati per traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa ai danni dello Stato.
Dal nord al sud, il lucroso ciclo dei rifiuti
I rifiuti sono un enorme business, e ci guadagnano tutti: sono una risorsa per le imprese, per la politica, per la Camorra, una risorsa pagata maciullando i corpi e avvelenando le terre. Ci si ostina a considerare il dato emergenziale come un problema locale, quando sarebbe sufficiente valutarlo con attenzione per risalire in dimensione, da regionale a nazionale, da nazionale a internazionale. Certo, su nessun manuale di economia si parla della criminalità organizzata come di un gruppo di imprenditori modello, necessari al buon funzionamento del Sistema, ma la realtà è questa.
Lo smaltimento è un costo che nessuna azienda sente come necessario, sebbene i rifiuti rappresentino sempre il sottoprodotto, molto spesso gravemente tossico, della fabbricazione di beni. La figura che i clan camorristici si sono inventati per gestire questa miniera d’oro è quella dellostakeholder, ossia del mediatore. Laureati, bella presenza, si diventa mediatori dopo qualche anno passato in Usa o in Inghilterra a specializzarsi in politiche dell’ambiente, per imparare come si trattano i rifiuti tossici, come aggirare le norme, come avvicinare la comunità imprenditoriale con scorciatoie clandestine. Gli stakeholder campani si presentano quindi dai proprietari delle imprese chimiche, delle concerie, delle fabbriche di plastica di tutto il Paese e propongono il loro listino prezzi. A differenza dei mediatori legali, sono in grado di offrire un servizio tutto incluso (trasporto compreso), e per di più a prezzi bassissimi: il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici varia da 21 a 62 centesimi al chilo, e i clan forniscono lo stesso servizio a 9 o 10 centesimi al chilo. Per esempio, questi individui sono riusciti nel 2004 a garantire che 800 tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, di proprietà di un’azienda chimica, fossero trattate a 25 centesimi al chilo, con un risparmio dell’80% sui prezzi ordinari.
Unendo tutti i dati emersi dalle inchieste condotte dalla procura di Napoli e da quella di Santa Maria Capua Vetere dalla fine degli anni ’90 al 2007, è possibile quantificare il vantaggio economico per le imprese che si sono rivolte alla Camorra in 500 milioni di euro. Ma, poiché le inchieste giudiziarie hanno scoperto solo una percentuale parziale delle infrazioni, ne deriva che moltissime aziende del nord Italia sono riuscite a crescere, ad assumere, a rendere competitivo l’intero sistema industriale del Paese al punto da poterlo spingere in Europa, anche grazie ai vantaggi di costo assicurati dall’intervento della criminalità organizzata. L’operazione Cassiopea del 2003 ha dimostrato che ogni settimana partivano dalle regioni del nord quaranta tir ricolmi di rifiuti – cadmio, zinco, scarti di vernici, fanghi da depuratori, plastiche, arsenico, piombo – che venivano sversati o interrati nel territorio campano, trasformandolo in un’unica, enorme discarica. Si stima che negli ultimi cinque anni in Campania siano stati smaltiti illegalmente circa tre milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui un milione nella sola provincia di Caserta.
Ma le cose non funzionano così solo in Italia: gli stakeholder cinesi, allievi dei clan nostrani, hanno imparato a trattare con le aziende europee, sempre a caccia di nuovi modi per migliorare la propria competitività, e propongono loro prezzi e soluzioni efficaci. A Rotterdam la polizia portuale olandese ha scoperto nel 2005, in partenza per la Cina, mille tonnellate di rifiuti urbani inglesi spacciati per carta da riciclare. Un milione di tonnellate di rifiuti high tech partono ogni anno dall’Europa e vengono sversati nella provincia di Hong Kong, intombati, stipati sottoterra, affondati nei laghi artificiali. Come nel casertano. Per non parlare delle cosiddette ‘navi dei rifiuti’ gestite dalla ‘ndrangheta, di cui ancora poco sappiamo se non che ce le troviamo in fondo ai nostri mari, da chissà quanti anni. Mentre nuovi territori da convertire a discarica sono quelli delle vie del narcotraffico, Albania e Costarica, ma anche Romania, Mozambico, Somalia e Nigeria. Da Milano a Napoli, da Londra a Guiyu, trasi munnezza, esce oro.
La Camorra sembra chiami se stessa “il sistema”. Così imprese, politici, stakeholder non lavorano per i clan, ma per il sistema. Questo non è un paradosso, quando si comincia a intravedere che non esistono due entità distinte, una illegale al sud e una legale al nord, ma due organismi profondamente interrelati, che hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere: dal sistema al Sistema. La chiamata di Gianni De Gennaro prima, e di Guido Bertolaso poi, a commissari straordinari, appare a questo punto assolutamente in linea con la più abietta continuità: l’emergenza campana va risolta senza compromettere l’ordine pubblico. L’ordine che prima degli interessi dei cittadini serve gli interessi dell’economia, legale e illegale, e della politica sua ancella. Prova ne sia la natura del mandato che ha permesso loro di agire anche in deroga alle leggi sulla salute e sull’ambiente: gli interessi di chi fa affari sono gli unici beni da difendere, e se i bambini nascono malformati, le banconote no.
di Giovanna Baer
26 maggio 2010

Acqua. Dossier choc della Procura: «falde inquinate»

NAPOLI (28 maggio) - Aveva ragione il pentito Vassallo: i terreni a nord di Napoli, quelli della ex discarica Resit, sono stati avvelenati da lui, dai suoi fratelli e dall'avvocato Cipriano Chianese con la complicità di quelli che ne hanno autorizzato l'utilizzo. E non solo: anche la falda acquifera contiene sostanze cancerogene. Lo sostiene il geologo Giovanni Balestri nella relazione consegnata a marzo alla Dda di Napoli. I magistrati, infatti, lo avevano incaricato di verificare la situazione dopo le dichiarazioni del manager dei rifiuti pentito. L’incartamento è poi stato inviato alla Regione e mercoledì si è svolto un vertice al dipartimento nazionale di protezione civile con l’assessore Giovanni Romano, il direttore generale del ministero dell’Ambiente, Marco Lupo, e il commissario alle bonifiche, Mario De Biase.Sono stati immediatamente stanziati 50 milioni di euro per risanare l'area della ex Resit e dei laghetti di Castelvolturno in stretto raccordo con la procura della Repubblica. Un intervento deciso praticamente ad horas vista la gravità della situazione descritta da Balestri: «Il ritrovamento in falda di sostanze cancerogene quali il tricloro e il tetracloro etilene direttamente e unicamente riconducibili alle attività delle discariche Resit in località Scafarea e alla tipologia dei rifiuti in essa smaltiti...comporta l’avvelenamento della falda acquifera sottostante gli impianti».Secondo l’esperto la contaminazione futura della falda acquifera si estenderebbe «sin oltre i confini provinciali interessando la popolazione di numerose masserie che utilizzano ancora i propri pozzi anche per l'uso alimentare personale. Ugualmente in zona sitrovano numerose attività agricole e zootecniche che utilizzano l'acqua estratta da questa falda per l’irrigazione e il beveraggio». E ancora: «La contaminazione può raggiungere i numerosi fossi e canali risalenti alla rete idrica superficiale dei Regi Lagni, se in collegamento idrico diretto con la falda in questione». Secondo i calcoli del geologo (che si è avvalso per le analisi di un laboratorio di Forte dei Marmi) l’infiltrazione di 14 mila tonnellate di percolato mostrerà tutta la sua carica letale entro il 2064. Infatti il liquido velenoso nei 23 anni di funzionamento della discarica non è mai stato smaltito. Inoltre: le pareti del sito non sono state impermeabilizzate. Spiega Balestri: «questo percolato attraverserà naturalmente il tufo sotto l’invaso in 79 anni dal loro inizio dell'accumulo (almeno dal 1985) nell’ipotesi più lenta, quindi il disastro ambientale inevitabile inizierà non più tardi del 2064». Nella Resit sarebbero state sotterrate 341 mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, a cominciare dai fanghi dell'Acna di Cengio; 160 mila e 500 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi; 305 mila tonnellate di rifiuti solidi urbani. E gli sversamenti sarebbero continuati fino al 2008 anche se il sito era stato sequestrato già nel 2004. Non salva nessuno il geologo: al momento del passaggio di gestione al consorzio di bacino Napoli 3, la discarica era ampiamente sfruttata e non più utilizzabile.E come se non bastasse, ricorda Balestri, nel periodo dal 2001 al 2003 il sub commissario Facchi aveva concesso alla Resit dell'avvocato Chianese, già più volte indagato, un venti per cento delle volumetrie ancora disponibili alla Scafarea per lo sversamento di rifiuti speciali di provenienza privata e questo ha fatto sì che negli invasi Resit (congestionati dal sovrautilizzo) si arrivasse ad un’inevitabile miscellanea di rifiuti pericolosi privati con rifiuti non pericolosi. Per concludere nel periodo tra il 2003 e il 2004 secondo il docente si sarebbe realizzato un ulteriore sovrasfruttamento del sito. In quel periodo era stato infatti chiuso un accordo con Fibe Campania per lo stoccaggio delle balle. E Balestrieri spiega: «Tale stoccaggio, finito subito male per i ripetuti incendi, non doveva essere assolutamente messo in opera». Nulla è stato risparmiato alla terra dei fuochi. Una storia di abusi ripetuti che si dovrebbe concludere con la bonifica: «Stiamo cominciando ad affrontare – dice Romano – questioni fondamentali che non si affrontavano, in Campania, da un quarto di secolo. Non appena abbiamo ricevuto dalla Procura della Repubblica, la notifica dei risultati delle analisi, con il presidente Caldoro, ci siamo attivati verificando da subito l’importanza della situazione».

fonte: Il Mattino 28/5/10 di Daniela De Crescenzo

mercoledì 19 maggio 2010

Quale futuro per la Reggia di Carditello?



La Reggia di Carditello, nelle campagne del comune di San Tammaro, di recente è stata acquisita dalla Camera di Commercio. Fino a qualche mese fa è stata di proprietà del consorzio di bonifica del basso Volturno. C'è chi dice che sia l'inizio della rinascita di un bene monumentale tra i più belli di Terra di Lavoro, qualcun altro invece ci vede, nell'operazione, qualcosa di losco, una sorta di manovra dei "poteri locali" per appropiarsene in futuro e specularci. Dal momento che ci troviamo nell'Agro Aversano "l'impensabile" è da prendere seriamente in considerazione. Intanto c'è da registrare che a meno di un Km di distanza dal sito vi si trovano le megadiscariche di Santa Maria la Fossa (località Ferrandelle) e San Tammaro (località Maruzzella) nella prima delle quali vi sono stoccati oltre un milione di metri cubi di rifiuti tal quale raccolti nella recente fase emergenziale. Il disastro ambientale provocato da tale accatastamento di rifiuti è sotto gli occhi di tutti. Al momento non esiste ancora, come per legge, uno stabilimento nelle vicinanze per il compostaggio. Anche quella di San Tammaro è prossima al collasso. Il Real Sito di Carditello ha un futuro in questo stato di cose?

Fotografie di Franco Spinelli

domenica 16 maggio 2010

Zona Asi e Ici, Verde: "Nessuna differenza tra agricolo e industriale"

tratto da Pupia.tv
del 10 Maggio 2010

Il dottor Verde, consigliere comunale di opposizione, interviene sulla questione del valore assegnato ai terreni nella zona industriale di Gricignano. Come già ribadito in Consiglio comunale, Verde ha posto l’accento sull’Ici che ora i proprietari dei fondi agricoli devono pagare in base alla nuova valutazione, ossia “30 euro al metro quadro, poi ridotta del 25%”, come riferisce il consigliere. Cifra che gli stessi proprietari ritengono esosa, dal momento che quei terreni sono agricoli. Lo stesso discorso viene fatto per le aree inquadrate come “edificabili” ma di fatto non ancora edificate.Ma l’aspetto più interessante della disamina di Verde è che mentre lo Stato, come Regione Campania, espropria quei terreni a quattro-cinque euro al metro quadro (vedi il caso del Polo tessile Impre.co), il Comune invece li valuta una cifra quattro volte superiore. “Si chiede di pagare l’Ici ai contadini come se questi, sui loro terreni, avessero delle industrie. – afferma Verde – Perché il Comune non ha valutato quei terreni in base alle tariffe applicate dalla Regione?”.

nella foto (di Franco Spinelli) il consigliere di opposizione del comune di Gricignano Antimo Verde

sabato 15 maggio 2010

Le discariche non bastano più «Arriva una nuova emergenza»

di Daniela De Crescenzo da il Mattino

giovedì, maggio 13, 2010

«Se non ci saranno altri impianti entro il 2011 la Campania, come altre regioni italiane, rischia una nuova crisi rifiuti»: lo ha sostenuto l’amministratore delegato dell’Asia, Daniele Fortini, intervenendo ieri alla presentazione del rapporto Enea-Federambiente (di cui è presidente) sul trattamento dei rifiuti urbani in Italia. «Nella provincia di Napoli non basta un termovalorizzatore – sostiene Fortini – e i suoli promessi da oltre un anno dalla Regione per la realizzazione dell’impianto nella zona est ancora non sono stati messi a disposizione». Per questo motivo la situazione, secondo l’amministratore di Asia, resta ad alto rischio. Ma non solo. Il secondo problema da affrontare è quello del progressivo esaurimento delle discariche: per il momento restano aperte quelle di Chiaiano e di Terzigno, dove era stato programmato un raddoppio del sito. Raddoppio contestato dalle amministrazioni locali e messo in discussione dall’Europa. Judith Merkies, il capo della delegazione europea che per tre giorni alla fine di aprile ha girato la Campania, lo ha definito «inaccettabile». Resta quindi il problema di scongiurare una crisi da mancanza di discariche. Una crisi che sarebbe estremamente grave anche perché purtroppo in Italia sono ancora le discariche la valvola di sicurezza del sistema rifiuti. Come risulta dal rapporto di Enea e Federambiente queste continuano a ingoiare il 51,9 per cento del totale della spazzatura del nostro Paese, il 36,5 per cento senza nessun trattamento. Secondo Fortini, però, c’è anche un altro elemento di pericolo, quello economico: «Cresce la quantità e la qualità dei servizi chiesti dai cittadini e crescono le richieste delle comunità locali – sottolinea l’amministratore dell’Asia – ma le risorse a disposizione sono poche: dal 2007 al 2009 al Comune non è arrivato nessun contributo dallo Stato, dalla Regione e dal Conai anche se la legge prevede crescenti percentuali di differenziata: per raggiungerle bisogna però mettere in campo nuove risorse». In Campania si è arrivati al 23 per cento di differenziata e nel solo Comune di Napoli si è passati dal 12 per cento del 2007 all’attuale 21 per cento, bisognava, invece, raggiungere il 25. Sul problema termovalorizzatore è intervenuto anche Pasquale De Stefanis, dell’Enea, ricordando che l’impianto di Acerra si troverebbe in un ingorgo se fosse costretto a smaltire i sei milioni di balle ancora accatastate nei siti di stoccaggio. E la struttura di Bertolaso è subito intervenuta sottolineando che le balle non sono destinate a quel sito: «La legge 123 del 2008 – è scritto in un comunicato – prevede la realizzazione, oltre a quello in esercizio ad Acerra, di ulteriori tre termovalorizzatori per lo smaltimento della produzione giornaliera dei rifiuti campani cui si è ipotizzata l’aggiunta di un quinto impianto tematico da dedicare, cioè, esclusivamente allo smaltimento dei 6 milioni di ecoballe prodotte sino al 2008».

Clan e rifiuti, verbali secretati dalla commissione

di Lorenzo Calò da il Mattino
giovedì, maggio 13, 2010

La quasi totalità delle dichiarazioni rese dal procuratore capo di Napoli Giovandomenico Lepore e dal suo collega di Santa Maria Capua Vetere Corrado Lembo (ascoltato insieme con i sostituti Donato Ceglie e Silvio Marco Guarriello) è stata secretata. Sono le decisioni adottate dalla delegazione della commissione bicamerale d’inchiesta sulle ecomafie ieri e oggi a Caserta per una serie di audizioni. Uno scenario che Gaetano Pecorella, presidente dell’organismo parlamentare, non ha esitato e definire «da brivido». Tanto più dopo aver effettuato un sopralluogo nei siti di Ferrandelle, San Tammaro e Villa Literno; «ma soprattutto – dirà in tarda serata lo stesso Pecorella – perché al momento non esiste un piano per il futuro, che consenta una gestione efficace per i prossimi anni non solo per quanto riguarda lo smaltimento ordinario dei rifiuti ma anche il trattamento degli scarti speciali. E, si sa, la criminalità interviene proprio nelle situazioni di disorganizzazione e disagio». Una previsione che, a detta dei tecnici della stessa commissione, garantirebbe appena un anno e mezzo di «autonomia», dopodiché sarà di nuovo emergenza infinita. Eppure è solo uno dei tanti spaccati di un quadro dell’orrore cui aggiungono tinte oscure proprio gli atti relativi alle inchieste giudiziarie in corso. Atti incentrati essenzialmente su due fronti: il buco nero dei debiti e della gestione finanziaria e del personale del Consorzio unico delle province di Napoli e Caserta e una serie di inadempienze riscontrate nell’attività dei siti temporanei di stoccaggio dove – durante la fase emergenziale – sarebbe entrato ogni tipo di rifiuto. Insomma, aspetti su cui – hanno confermato Lepore e Lembo – sono ancora in corso accertamenti. A cominciare dalle modalità di conduzione amministrativa del Consorzio: gli inquirenti avrebbero accertato decine di assunzioni, promozioni e avanzamenti di carriera basati su rapporti e intrecci di parentela con politici e amministratori pubblici, segnalazioni e raccomandazioni persino da ambienti riconducibili al clan Buttone di Marcianise. Una gestione quanto meno «disinvolta» culminata, in appena due anni di esercizio, in una crescita esponenziale del personale che solo oggi – di fronte a un’amministrazione affidata a un commissario liquidatore – è esplosa con il bubbone esuberi e con un ammanco di cassa «strutturale» di almeno sei milioni e mezzo di euro al mese. Tanti sono i quattrini che servono a coprire le sole spese del personale a fronte di situazioni a dir poco incredibili cristallizzate nel corso dei mesi con alcuni impiegati cui venivano riconosciute persino 28 (ventotto) ore di straordinario al giorno. Ma non è finita. Sotto i riflettori lo scandalo della depurazione (l’inchiesta non è che agli inizi), oltre 150 scarichi abusivi e inquinanti, un ciclo di «ottimizzazione all’incontrario» con l’acqua che esce dagli impianti più sporca di come entra. Gli inquirenti intendono vederci chiaro anche sulla gestione dei siti di Ferrandelle (aperto nel 2008, ora chiuso, capienza dichiarata 502 mila tonnellate di immondizia, area sequestrata dai Noe) e San Tammaro: un modus operandi non direttamente riconducibile a pressioni della criminalità ma addirittura a leggerezze di tipo tecnico. Particolari riscontrati dalla commissione nel sopralluogo di ieri mattina: piazzole non coperte, formazione di percolato, fuoriuscita di sostanze gassose mai classificate, falle nel servizio di vigilanza. Un esempio? Negli ultimi 10 mesi l’impianto di San Tammaro ha subito tre incendi. Con un unico filo conduttore: in tutte le circostanze le fiamme sono state appiccate in giornate di pioggia. Un particolare fin troppo strano per non far pensare a un atto doloso.

Lo sversatoio delle Asl: rifiuti speciali a ridosso delle cave

di Luigi Ciccarelli da il Mattino

giovedì, maggio 13, 2010

Rifiuti speciali provenienti dall’Asl abbandonati a ridosso delle cave di via Spinelli a Quarto. A far emergere l’ennesimo sfregio ambientale compiuto ai danni del territorio quartese è stato un controllo predisposto dall’assessore all’ambiente Raffaella Iovine, che ieri mattina ha eseguito personalmente un sopralluogo lungo l’area. Uno screening avviato nelle scorse settimane proprio per contrastare l’abbandono indiscriminato dei rifiuti per le strade cittadine. Un fenomeno che a dispetto della pressante azione di sensibilizzazione ambientale prodotta dalla crisi dei rifiuti del 2008, sembra non conoscere flessioni. Tra le zone più colpite dall’abbandono criminale di rifiuti di ogni genere e pericolosità, c’è proprio contrada Spinelli, dove sorgono quattro cave di tufo, tre delle quali dismesse. Due delle cave abbandonate sono tuttora sotto sequestro, dopo che alcune inchieste della magistratura napoletana hanno scoperto che in esse venivano stoccati illegalmente rifiuti speciali e pericolosi. È qui che ieri mattina sono stati rinvenuti, abbandonati lungo la strada che conduce alle vecchie cave, diversi cartoni colmi di rifiuti. Contenitori da cui sono emersi anche rifiuti risultati provenienti dal distretto sanitario dell’Asl di Quarto. Tra i rifiuti rinvenuti, infatti, alcuni portano l’indicazione del laboratorio di vaccinazione ospitato nei locali di corso Italia. Si tratta di termometri, ma anche di prodotti utilizzati dal centro vaccinale del distretto. Tra i rifiuti rinvenuti figurano, inoltre, i resti alimentari provenienti dalla mensa di una scuola elementare della città. Il ritrovamento è stato segnalato alla polizia municipale, oltre che ai vertici della «Quarto multiservizi», la municipalizzata che gestisce i rifiuti in città. È stato proprio l’amministratore delegato della Multiservizi, Claudio Crivaro, a recarsi presso la tenenza dei carabinieri di corso Italia per denunciare il fatto. Una denuncia con la quale si punta a risalire ai responsabili del reato ambientale. Indiziate principali sarebbero, a detta dell’assessore Iovine, le ditte che si occupano del prelievo dei rifiuti per conto dell’Asl e delle scuole cittadine. «Da settimane – dice la responsabile dell’ambiente di Quarto, entrata nella giunta Secone solo di recente – stiamo monitorando il territorio per sanzionare eventuali scarichi abusivi. Abbiamo verificato che qualcuno, probabilmente chi si occupa della pulizia all’interno dei locali dell’Asl e di una scuola elementare, ha sversato in modo illecito scarti provenienti dai laboratori dell’azienda sanitaria e dalla mensa scolastica. Adesso dovranno essere le forze dell’ordine a certificare i responsabili e sanzionare gli abusi». Sulla vicenda è intervenuto anche il sindaco Sauro Secone: «Da mesi – ricorda il primo cittadino – stiamo conducendo una battaglia serrata contro chi inquina il territorio. È vergognoso che qualcuno abbia gettato rifiuti speciali in strada. Le uniche note positive sono la prossima apertura dell’isola ecologica nell’ex macello comunale e la raccolta differenziata arrivata al 20 percento». Sul possibile coinvolgimento di una ditta legata all’Asl Napoli 2 Nord, annuncia massima collaborazione il commissario straordinario Alfredo Savarese: «Ritengo l’episodio gravissimo – dice Savarese – e assicuro la massima celerità negli accertamenti».

domenica 9 maggio 2010

TERRA DI LAVORO NON HA BISOGNO DI INCENERITORI MA DI RECUPERARE LE RISORSE

Il territorio non ha bisogno di un altro inceneritore ma di una vera filiera industriale per il recupero delle risorse. E’ passata, ormai, una settimana da quando il presidente ‘senza giunta’ della Provincia, on. Zinzi, ha proposto la realizzazione di un altro inceneritore «in modo da rendere questo territorio completamente autonomo sotto il profilo della gestione dell’intero ciclo dei rifiuti». Così il Presidente!


Cos’è successo dopo questa proposta? Nulla!


Silenzio della maggioranza, silenzio della cosiddetta opposizione, silenzio degli imprenditori e delle loro organizzazioni, silenzio dei sindacati, silenzio della Gisec (leggi ex giudice Di Persia); silenzio, infine, da parte dell’Università e dal mondo della scienza ufficiale. La cosa appare singolare, forse perché si aspetta che Cosentino e i suoi decidano quando prendere il Palazzo e poi si vedrà, forse perché, in fondo, nessuno crede alle parole di Zinzi, poiché, è evidente, siamo nella situazione in cui “i pantaloni li porto io ma chi comanda è mia moglie”! Le parole quindi non solo non vanno sprecate, ma occorre quella “opportuna” cautela in attesa che il vero padrone delle ferriere decida il da farsi. Sono note le competenze del presidente in materia di smaltimento dei rifiuti, quindi riteniamo che Zinzi non sapesse quello che diceva in Prefettura. Zinzi non sa che l’attuale dotazione di impianti, macchinari e attrezzature in materia di smaltimento e recupero di rifiuti in provincia è superiore allo stesso fabbisogno e che la questione principale è una direzione tecnica e amministrativa degna di questo nome per la Gisec e per quanti hanno responsabilità per la gestione degli impianti e la pianificazione dell’intero ciclo. Occorre un coinvolgimento degli imprenditori e non la loro esclusione (con la proposta Zinzi) per creare un’autentica filiera che recuperi materiale e crei nuova occupazione, altro che incenerimento e distruzione di risorse! Il movimento ambientalista, il Comitato Emergenza Rifiuti, la società civile da oltre un anno e mezzo ha presentato un dettagliato piano, fatto proprio da Speranza Provinciale, per un autentico ciclo del recupero del materiale per la provincia di Caserta.

E’ assordante il silenzio di quanti avrebbero il dovere di parlare e di valutare a incominciare dall’opposizione per finire all’Università dove molti ormai si chiedono se ritiene ancora valida l’idea di radicarsi sul territorio a partire da una sua comprensione, oppure far diventare la Sun un luogo di clientele e nepotismi vari come usa fare anche nelle “ultime province del regno”. No ne abbiamo bisogno. Se, tuttavia Zinzi o chi per esso, dovesse insistere sull’inceneritore consigliamo di allocarlo magari fra Casapesenna (dove il consenso a Zinzi è stato del 90,67%) e S.Felice a Cancello (dove ha ottenuto l’85.01%) o Cancello e Arnone (l’89,76 %) o Casal di Principe (l’86,44%) o Arienzo (l’83,25%) o Cellole (l’80,26%) o, infine, San Cipriano d’Aversa (79,25 %). I cittadini di quei comuni, che così liberamente hanno accordato tanta fiducia al centro destra saranno felici di accogliere una così qualificante proposta per l’ambiente, le risorse e la salute pubblica. Consigliamo pure al presidente “re Travicello” uno scienziato “vero” (perché non lo nomina assessore?) sostenitore da sempre della distruzione delle risorse: quel professor Arena che, estraneo alla stessa idea di sviluppo sostenibile, tradisce la squadra di una facoltà di Scienze Ambientali che, invece, cerca di capire come coniugare ambiente e territorio, sviluppo sostenibile, economia e occupazione ma a partire dal recupero e salvaguardia delle risorse e non della loro distruzione.

Speranza Provinciale dice no all’inceneritore e invita tutti i soggetti che hanno responsabilità pubbliche a sollecitare un confronto serrato sulle prospettive e sullo sviluppo di questa provincia che, certo, non può essere sostenuta da forze la cui unica preoccupazione è la sistemazione al potere di un ente che ancora, dopo oltre un mese e mezzo dalle elezioni non ha un governo in barba ai bisogni della gente e alle necessità del territorio e dei giovani.


Nella foto in alto (di Franco Spinelli) alcuni esponenti di Speranza Provinciale


fonte: comunicato stampa

Movimento Speranza Provinciale

Caserta, 7 maggio 2010

martedì 4 maggio 2010

Una Pianura senza Colpe

Il pm chiede l'archiviazione per l'inchiesta sulla discarica. Nessun nesso documentato tra l'immondizia e i tumori. Prescritti i reati di truffa e falso relativi ai fondi per la bonifica Nessuno paga per l'epidemia colposa

4 maggio 2010

di Vincenzo lurillo

Fonte: Il Fatto

Uno dei luoghi simbolo dello scempio dei rifiuti in Campania è una discarica sita in Contrada Pisani. quartiere di Pianura, periferia di Napoli. Un buco nero di monnezza e di misteri. in cui per quarant'anni si è buttato di tutto. La discarica fu chiusa ufficialinente nel 1996. dopo essere stata utilizzata a lungo come cassonetto illegale dalle grandi aziende del Nord. che venivano qui a smaltire in economia le polveri di amianto e i rifiuti speciali. Anche quelli pericolosi: un autista ha riferito che i camion venivano lasciati precipitare in discarica insieme al loro contenuto di bidoni tossici. La decisione fu presa in seguito all'incidente di ciii rimase vittima un collega, ustionato dalla sostanza fuoriuscita da un fusto e rimasto cieco da un occhio. Nel 2000 la commissione parlamentare d'inchiesta sui rifiuti accert che a Pianura erano finiti i fanghi velenosi dell'Acna di Cengio. "Un quantitativo rilevante - affermò l'ex presidente della commnissione, il verde Massimo Scalia - che purtroppo non riuscimmo a definire con esattezza perché buona parte della documentazione che riguardava i trasporti era andata distrutta o era incompleta". PER ANNI la pm di Napoli Stefania Buda ha lavorato con scrupolo e tenacia a un'inchiesta sui veleni di Pianura. ha studiato gli esposti dei comitati cittadini, le perizie dell'Arpac, le risultanze dei carotaggi disposti dal ministero dell Ambiente. Ha indagato i proprietari della discarica e i collaudatori di una bonitìca e messa in sicurezza dell'area che, si è scoperto dopo. non è stata mai compiuta, nonostante due miliardi e mezzo delle vecchie lire erogati allo scopo dal commissariato per l'emergenza. Ha mandato i Nas a battere palmo a palmo i caseggiati del quartiere per acquisire le cartelle cliniche di chi, a Pianura, si è ammalato o è morto di tumori o patologie respiratorie. Ne uscì un rapporto terrificante sulla presenza di ben 60 casi di linfoma di Hodgkin. POCHI GIORNI FA la Buda ha dovuto gettare la spugna, fìrmando una richiesta di archiviazione. La prescrizione ha cancellato i reati di truffa e falso relativi ai fondi per la bonifica. E i periti non sono riusciti a stabilire un nesso causa-effetto tra le schifezze gettate nella fossa di Contrada Pisani e il moltiplicarsi delle malattie. Quindi la Procura ha chiesto l'archiviazione anche per il reato di epidemia colposa. Resta aperta una parte dell'inchiesta, trasmessa alla sezione Ambiente, che riguarda le condizioni disastrose del sito rilevate durante i carotaggi. Ancora adesso - sottolinea la giornalista Amalia De Simone de Il Napoli, autrice di una coraggiosa campagna stampa sulle vicende di Pianura - dalla discarica fuoriesce percolato e biogas in quantità tale da determinare esplosioni. Ma le speranze di veder celebrato un processo pubblico, che individui i presunti colpevoli del disastro e li condanni a risarcire i familiari delle vittime. sono ridotte al lumicino. SONO ESASPERATI, gli abitanti di Pianura. Ed ebbero gioco facile i violenti e i portatori di interessi speculativi a fomentare, nel gennaio 2008, la guerriglia urbana contro la riapertura della discarica. annunciata (e alla fine rimasta solo sulla carta) dal commissariato straordinario per fronteggiare il riacutizzarsi dell'emergenza rifiuti. Finirono in manette, tra gli altri., l'assessore Pd Giorgio Nugnes, poi morto suicida, e il consigliere comunale Ari Marco Nonno. Per questi scontri i processi sono ancora in corso. Nell'ordinanza di arresto il Gip cita alcune intercettazioni relative alla sparizione di un dossier dell'Enea sugli anomali livelli di radioattività nel quartiere. Un testimone metterà a verbale l'esistenza dell'incartamento, che però non verrà mai ritrovato. "Siamo cresciuti con l'odore della monnezza nei polmoni - urlavano i residenti del quartiere - abbiamo già dato. La discarica è da bonitìcare, non può essere riaperta". Avevano ragione. Lo ha certificato il professor Crescenti, docente dell'Università di Chieti, che al pm ha trasmesso una relazione in cui si evidenzia che in diversi strati non è stata rinvenuta l'impermeabilizzazione. MA SUL VERSANTE epidemiologico non è stato possibile dimostrare un collegamento tra lo sversamento dei rifiuti tossici, l'inquinamento anche questo documentalmente provato delle falde e dei pozzi. e il moltiplicarsi di tumori e linfomi. Nelle due pagine della richiesta di archiviazione si afferma che le cartelle cliniche, i dati lstat, Asl e ospedalieri non sono sufficienti, in assenza di dati circoscritti ai dintorni della discarica e in assenza di studi e di controlli sui soggetti sani abitanti nell'area. Al Gip l'ultima parola su un'inchiesta che rischia di essere sepolta e dimenticata: proprio come i ritìuti tossici di Pianura.

Commissione europea: «Manicomio Campania»

30 aprile 2010 - cir.pel.

Fonte: Il Napoli

Su Twitter Judith Merkies, capo delegazione olandese dei parlamentari europei in visita a Napoli si lascia scappare una parola forte. «Gekkenhuis». Manicomio. Così l'europarlamentare socialista definisce la situazione dello smaltimento rifiuti in Campania. Un manicomio di impianti, proteste, divieti, rivolte. La visita della delegazione della Commissione petizioni del Parlamento europeo si chiude oggi, ma ieri c'è stata la visita discarica di Terzigno alle falde del Vesuvio. Una visita che ha impressionato gli europarlamentari stranieri, per nulla convinti che la Campania sia davvero uscita dall'emergenza e dal caos connesso allo smaltimento del pattume. In ballo ci sono 500 milioni di euro di fondi Ue fermi dopo la procedura di infrazione europea. Denaro che potrebbe restare congelato ancora per molto tempo potrebbe addirittura essere revocato a seguito delle ripetute denunce di violazioni di legge avanzate dai cittadini al Parlamento di Strasburgo. Oggi, giornata finale: alle 9 vertice in Prefettura e alle 11 a Palazzo Santa incontro con il presidente della Regione Campania.

lunedì 3 maggio 2010

Il verdetto dei parlamentari dell’Ue: “Qui manca un ciclo integrato rifiuti”

di Patrizia Capua
da la Repubblica Napoli
Lunedì, maggio 3, 2010.

La Commissione Petizioni del parlamento europeo ha concluso che in Campania « manca un ciclo integrato dei rifiuti e che non viene rispettata la gerarchia dei rifiuti perché si utilizzano soltanto discariche e termovalorizzatori, senza passare per i processi che riducono l’immondizia, che favoriscono la selezione e il riciclaggio, processi che favorirebbero un utilizzo complessivamente minore delle discariche che sono viste non come una soluzione temporanea, ma definitiva». Ma i tre rappresentanti delle Province di Caserta, Salerno e Napoli chiedono tre nuovi termovalorizzatori oltre quello già attivo ad Acerra. Lo ha detto un componente della commissione, l’europarlamentare Enzo Rivellini del Pdl.
«E’ inaccettabile che ci sia una discarica nel Parco nazionale del Vesuvio protetto dall’Unesco e in una zona dal paesaggio stupendo», ha detto il capodelegazione, l’olandese Judith Merkies, dopo l’incontro a Santa Lucia con il presidente Stefano Caldoro, al termine della visita di tre giorni per fare il punto sul ciclo dei rifiuti. Merkies si è detta contraria, soprattutto, alla possibilità che se ne apra un’altra nella Cava Vitiello. «Ritengo anzi — ha aggiunto — che quella già aperta dovrebbe essere chiusa quanto prima. Anche su questo non ho avuto certezze. Le deroghe sono state prese in una fase emergenziale, non vanno protratte all’infinito. Finita l’emergenza, le norme ambientali devono essere rispettate»
Dopo aver visitato i siti di Chiaiano, Taverna del Re, Ferrandelle, l’impianto di Acerra, Terzigno e Basso dell’Olmo, a Serre, Merkies ha appreso con stupore che i cittadini non possano avervi accesso, «nemmeno il sindaco di Terzigno era mai entrato prima nella discarica». L’europarlamentare ha inoltre rassicurato i cittadini: «Non siamo venuti solo per fare una relazione da mettere nel cassetto. Io sono con voi ed esprimo preoccupazione estrema e intensa. Siamo qui per stimolare un cambiamento in positivo che implica cooperazione da parte delle autorità locali e del governo nazionale». Le conclusioni saranno presentate all’Ue entro giugno. In un documento comune, intanto, la presidente della commissione, Erminia Mazzoni e i tre colleghi italiani, Cozzolino, Rivellini e Iovine, annunciano l’impegno ad arrivare a una gestione ordinaria. Sono d’ accordo nel «riconsiderare» l’ipotesi di una seconda discarica sotto il Vesuvio, così come appare «critica» l’ipotesi di sversare a Valle della Masseria, a Serre. Ai fini di una maggiore trasparenza, sarà promosso un gruppo di monitoraggio con esperti e specialisti indipendenti. All’Europa verrà sollecitato lo sblocco delle risorse, 500 milioni, necessarie per gli investimenti nel ciclo dei rifiuti. «Ogni passo indietro rischia di riportare la regione nel caos offrendo pericolosi margini di infiltrazioni alla criminalità organizzata». «I presidenti delle Province — ha affermato Mazzoni — hanno annunciato entro giugno la presentazione dei loro piani industriali, che significherà andare finalmente a regime». La commissione dovrebbe tornare in Campania l’ anno prossimo.


Difesa Grande , dopo dieci anni è il momento della chiarezza

25 aprile 2010 - Vincenzo Grasso Fonte: Il Mattino Avellino  Ariano Irpino. Per anni gli ambientalisti arianesi capeggiati da Giovanni Maraia e Giovanni La Vita e i vari comitati spontanei sorti a Difesa Grande hanno sollecitato la magistratura arianese perché si facessero serie verifiche su quanto veniva smaltito nella discarica. Specie quando, a partire dal 2000, si sono susseguite più proroghe per l'emergenza rifiuti in Campania. Quell'incessante via vai di compattatori, accompagnato dalla realizzazione di più vasche all'interno dell'impianto, avrebbe potuto nascondere più di un'attività ai limiti della legalità. Ecco perché l'inchiesta avviata dalla compianta Daniela Tognon e conclusa con il rinvio a giudizio per venticinque persone (ex amministratori dell'Asi-Dev, del Codiso e del Consorzio Napoli 3) viene vista come una tappa importante per risalire alla verità sulla gestione di questo sversatoio chiuso ufficialmente solo dal 10 luglio del 2007. La gravità delle ipotesi di reati contestati, in realtà, aveva già messo in allarme il Comune di Ariano, che non aveva esitato a costituirsi parte civile. «Oggi - è la tesi dell'avvocato Domenico Carchia - non si chiede vendetta, ma solo chiarezza. E' importante capire perchè una discarica nata per funzionare solo due anni sia andata avanti, tra proroghe e ampliamenti, per oltre dieci anni. Perché non sono stati mai ascoltati gli appelli degli ambientalisti per l'inquinamento delle falde acquifere; parchè siano stati autorizzati gli scarichi di fanghi. Tutto questo deve venire alla luce del sole anche per raggiungere un altro obiettivo: l'immediata messa in sicurezza e bonifica dell'area». Nel processo che si aprirà il 14 luglio la difesa è intenzionata a far valere le proprie tesi. Una di questa fa esplicito riferimento alla regolarità delle autorizzazioni e concessioni. Nel vorticoso processo di cambiamento di leggi in materia di smaltimento rifiuti è davvero difficile districarsi. Con i decreti, le ordinanze, i sequestri e dissequestri dell'impianto, le denunce e le perizie sono stati allestiti ben 39 faldoni.

domenica 2 maggio 2010

LIBERAFIUMI 2010. I volontari del WWF in azione: VOLTURNO SORVEGLIATO SPECIALE


Il presidente del WWF Campania Alessandro Gatto: “Sarà una giornata importante per fotografare lo stato di salute di uno dei corsi d’acqua più maltrattati della Campania. L’appuntamento è per domenica 2 maggio. Oltre cento volontari effettueranno il monitoraggio di ambo le sponde nel tratto del fiume compreso tra Capua e la foce a Castel Volturno."

Il Volturno “sorvegliato speciale”. Il corso d’acqua campano è il protagonista della campagna “Liberafiumi 2010” promossa dal WWF nazionale. L’appuntamento è per le 8.30 di domenica 2 maggio. Oltre cento persone tra volontari ed esperti del WWF, si incontreranno a Grazzanise, in via Cesare Battisti 192-194, dove sarà allestito una sorta di checkpoint di lavoro ove convoglieranno i dati raccolti dai partecipanti alla campagna. “Sarà una giornata importante per fotografare lo stato di salute di uno dei corsi d’acqua più complessi della nostra regione. – sottolinea Alessandro Gatto, presidente del WWF Campania - I primi dati – ricorda poi - verranno resi pubblici già il 16 maggio in occasione della Giornata delle Oasi”.L’iniziativa prevede un monitoraggio “visivo” di ambo le sponde nel tratto del fiume compreso tra Capua e la foce a Castel Volturno. I volontari provvisti di macchinette fotografiche, binocoli e schede di censimento, dovranno verificare lo stato delle rive del fiume, lo stato della biodiversità, le zone di esondazione, l'urbanizzazione presente e le situazioni a rischio di inquinamento e degrado ambientale. “La scelta del fiume Volturno non è casuale - ricorda il presidente Gatto– Questo corso d’acqua già dieci anni fa è stato interessato dalla stessa campagna. Oggi ci aspettiamo di raccogliere una serie di dati, che permetteranno al WWF di effettuare delle comparazioni sullo stato di salute di questo fiume, che attraversa un territorio molto compromesso sotto il profilo ambientale”. Il WWF vuole quindi riprendere l’azione di monitoraggio, presidio e protezione dei fiumi così come già fatto, più volte, per il Volturno nel recente passato, con pubblicazioni scientifiche naturalistiche-ambientali, con una sere di proposte e progetti per la riqualificazione del fiume. “I volontari saranno impegnati in gruppi di lavoro con una scheda di censimento e la cartografia tecnica regionale, in scala 1:5000, per poter puntualmente segnare l’uso del suolo. – ricorda Giovanni La Magna, referente della campagna fiumi del WWF Campania – Non saranno trascurate la presenza di manufatti, di eventuali discariche abusive, punti di captazione dell’acqua dal fiume o scarichi di acque reflue. – e concludendo - Il lavoro dei volontari sarà supportato da tecnici ed esperti del WWF e tutto sarà documentato con fotografie e video”. In campo scenderà anche la Protezione civile regionale con i propri volontari supportati da mezzi e 1 gommone. L’iniziativa è condivisa, inoltre, dal Comune di Castelvolturno, dell’AISA (associazione italiana scienze ambientali) regionale e provinciali e dal gruppo canoistico del circolo ASD – CCC, che affiancheranno i volontari del WWF campano. Ulteriori notizie su www.wwf.it/fiumi

fonte: comunicato stampa
nella foto: Alessandro Gatto (di Franco Spinelli)