domenica 30 maggio 2010

Crisi di Sistema

di Giovanna Baer

Termovalorizzatori, incentivi pubblici e mafia: la lucrosa economia dei rifiuti

‘Emergenza’ e ‘soldi’, due parole chiave che puntualmente ricorrono sulla bocca dei vari commissari straordinari chiamati a risolvere il problema dei rifiuti in Campania, da Bassolino a De Gennaro a Bertolaso. Parrebbe quasi che il problema sia tutto lì, come al solito, nei soldi che non bastano mai. Mentre per quanto riguarda l’emergenza, come nota giustamente una delle ultime relazioni parlamentari d’inchiesta, “discorrere di un’emergenza che dura ormai da quattordici anni costituisce un evidente ossimoro”.
La situazione creata nella regione non è solo un problema locale, e i soldi non sono mancati: in quattordici anni, sempre sotto l’egida emergenziale, la Campania ha bruciato più di otto miliardi di euro, e fra risorse nazionali ed europee ne dovrebbe ricevere altri 12 nei prossimi anni “per il completamento del ciclo integrato dei rifiuti”, che nessuno sa se sia mai cominciato, o quando.
Non pare davvero che siano i soldi il problema. Infatti, ciò che urlano a gran voce, amplificati dai media, i vari commissari chiamati a combattere contro l’ossimoro, è che servono gli inceneritori, anzi, i termovalorizzatori, come affettuosamente sono definiti dalla folta schiera di fan piromani.
Termovalorizzatori e diossine
Che cos’è un termovalorizzatore? Né la legislazione italiana né quella europea conoscono questo termine, e parlano sempre e soltanto di inceneritori. La voce è stata coniata, probabilmente da chi l’ha progettato o da chi li costruisce a suon di centinaia di milioni di euro, per descrivere gli impianti di incenerimento di nuova generazione, in cui le alte temperature sviluppate durante la combustione possono essere recuperate per produrre vapore, il quale è a sua volta utilizzato per la produzione di energia elettrica oppure come vettore di calore, per esempio nel caso del teleriscaldamento: i rifiuti vanno in fumo e in più ci si guadagna. Bello, no?
No, per diverse ragioni.
La prima è che il termine è fuorviante, dal momento che secondo tutte le moderne teorie di gestione le uniche modalità per valorizzare i rifiuti sono il riuso e il riciclo, mentre l’incenerimento costituisce null’altro che smaltimento, tutt’al più con recupero energetico; secondariamente, il processo di incenerimento crea grossi problemi di igiene ambientale.
Poniamo il caso delle diossine, inquinanti organici persistenti e sottoposti alla Convenzione di Stoccolma. Sono classificate dagli organismi sanitari nazionali e internazionali, in particolare dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (AIRC), come “sicuramente cancerogene”, e si sviluppano quando materiale organico è bruciato in presenza di cloro, per esempio quello contenuto nel normale sale da cucina o nella plastica delle bottiglie d’acqua. Questa è la ragione per cui le autorità sanitarie, all’epoca della spazzatura per le strade, imploravano gli esasperati cittadini napoletani di non dare fuoco ai mucchi di immondizia maleodoranti: i roghi contenenti resti di cibo e plastiche avrebbero esalato i fumi venefici, sotto forma di polveri particolarmente sottili (particolati) che non si disperdono nell’atmosfera, ma si spostano coi venti finché non cadono a terra dove, attraverso il fenomeno del bioaccumulo, risalgono la catena alimentare umana concentrandosi via via, a partire dai vegetali, passando per gli animali (prima gli erbivori e poi i carnivori), per arrivare infine all’uomo. Data la loro tendenza ad accumularsi negli esseri viventi, anche un’esposizione prolungata a livelli minimi può recare danni gravissimi. La diossina è una sostanza molto stabile, come sottolinea Federico Valerio dell’Istituto dei tumori di Genova: “Ci vogliono decine di anni perché scompaia dai terreni contaminati e, assunta attraverso il cibo, si concentra nel tessuto adiposo. L’accumulo progressivo è la caratteristica più subdola e pericolosa di questa sostanza che, grazie al mercato globale, può colpire anche molto lontano dal luogo in cui si è formata. D’altro canto, per colpa di dissennate tecniche di alimentazione degli animali di allevamento che utilizzano grassi animali, la concentrazione della diossina aumenta, nell’ultimo anello della catena alimentare, anche migliaia di volte rispetto al valore iniziale, e l’ultimo anello della catena è sempre l’uomo”.
Gli inceneritori bruciano rifiuti che contengono sicuramente componenti organiche e composti del cloro, e dunque producono sempre diossina. Anzi, l’incenerimento dei rifiuti continua a essere la principale fonte di diossine sul nostro pianeta, e nel 1995 costituiva ancora il 40% delle emissioni complessive. Si sono tuttavia fatti passi avanti significativi nella loro riduzione: innanzitutto, attraverso la raccolta differenziata si può dividere la parte nobile, cioè riciclabile, dei rifiuti (plastica, vetro, alluminio, legno, metalli) da quella non riciclabile, con conseguente contrazione della quota totale da smaltire. Una ulteriore distinzione viene poi effettuata fra la parte organica (il cosiddetto umido) che viene trattata in modo da diventarecompost (fertilizzante per l’agricoltura) e la parte secca che, attraverso impianti di combustibile da rifiuti (CDR) viene trasformata in ecoballe. Solo le ecoballe, che devono rispondere a precise caratteristiche normative, possono essere bruciate negli inceneritori.
Secondariamente, è fondamentale controllare i parametri della combustione e della post combustione, perché il livello delle diossine si abbatte drasticamente sopra gli 850 gradi di temperatura, ed effettuare in aggiunta un intervento specifico di chemiassorbimento, ossia fare condensare i vapori di diossina sulla superficie di carboni attivi, che li assorbono come una specie di spugna.
Sembra facile, ma non lo è.
Come spiega Guido Viale, economista ambientale, “innanzitutto i rifiuti sono un materiale molto poco omogeneo, con grandi variazioni di potere calorifico: basta uno sbalzo di temperatura e l’abbattimento degli inquinanti va in tilt, e sempre nella speranza che nel materiale conferito non siano state nascoste sostanze tossiche come nelle ecoballe campane (contenenti arsenico, n.d.a.)”.
C’è poi il problema della filtrazione della polvere di carbone esausta, cioè impregnata di diossina, che è altamente pericolosa ed è considerata rifiuto speciale, da sotterrare quindi in discariche ad hoc.
Ciononostante, la quantità di diossina prodotta anche da un inceneritore di ultima generazione è tutt’altro che trascurabile: “In un anno – conferma Federico Valerio – un impianto moderno emette in atmosfera circa 250 miliardi di picogrammi (miliardesima parte di un milligrammo, n.d.a.) di diossina, mentre una quantità cento volte superiore è contenuta nelle sue ceneri di filtrazione. Oggi in Italia la quantità di diossina prodotta pro capite, 16.8 microgrammi, è già superiore alla media europea (13.2 microgrammi), anche senza nuovi impianti di combustione. Il Belgio, che ha fatto la scelta di incenerire il 54% dei suoi rifiuti, guida – guarda caso – la classifica, con ben 45.2 microgrammi di diossina pro capite”.
E la diossina è solo uno degli inquinanti che compongono il mix di fumi emessi. Le ricerche scientifiche mostrano risultati chiarissimi: chi vive nelle vicinanze di un inceneritore corre un rischio sensibilmente più alto di contrarre il cancro. La relazione realizzata dall’Istituto oncologico veneto e dall’Assessorato alle politiche sanitarie della Regione Veneto intitolata Il rischio di sarcoma in rapporto all’esposizione ambientale a diossine emesse dagli inceneritori: studio caso controllo nella provincia di Venezia, per citare solo una delle pubblicazioni sull’argomento, afferma a conclusione delle indagini che “nella popolazione esaminata risulta un significativo eccesso di rischio di sarcoma, correlato sia alla durata che alla intensità dell’esposizione”, e che “gli inceneritori con più alto tasso di rilascio in atmosfera sono stati quelli che bruciavano rifiuti urbani”. Per di più il rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Trattamento dei rifiuti in Campania: impatto sulla salute umana. Correlazione fra rischio ambientale da rifiuti, mortalità e malformazioni congenite) mostra nella regione una situazione già gravemente compromessa: più 12% di patologie tumorali rispetto alla media italiana. Alla voce dell’Oms si aggiunge quella dell’autorevole rivista The Lancet Oncology che ha denunciato, fin dal settembre 2004, un aumento dei tumori al fegato del 24% nei territori delle discariche, mentre i casi di danni fetali sono, in queste zone, l’80% in più rispetto alla media nazionale.
Nessuna sorpresa che le popolazioni interessate non vogliano nemmeno sentire parlare di inceneritori, viste le precarie condizioni sanitarie, ben oltre lo stato d’allarme, in cui già ora sono costrette a vivere. La domanda è: perché invece politici e opinion maker li vogliono disperatamente?
Energia dai rifiuti?
Occorre sgombrare il campo da un altro equivoco, e cioè che il termovalorizzatore sia un investimento economico conveniente, se non igienico (ma su questo aspetto i sostenitori sorvolano o minimizzano), dal momento che produce energia, tanto più preziosa quanto più elevato risulta il deficit energetico del nostro Paese.
Marco Cattini, professore ordinario all’università Bocconi di Milano, non è per niente d’accordo: “Si pensa che con un inceneritore che crea energia bruciando rifiuti si possa trarre ricchezza da sostanze che andrebbero altrimenti occultate nelle discariche, e invece il vantaggio è solo apparente, tanto dal punto di vista ambientale quanto da quello economico. Dal punto di vista ambientale dopo l’incenerimento rimane da smaltire un volume di ceneri iperinquinanti che rappresenta comunque il 30% dei rifiuti bruciati, mentre gli impianti utilizzano e surriscaldano grandi quantità di acqua che viene poi reimmessa nelle falde. Dal punto di vista economico la produzione di energia da rifiuti è conveniente solo in ragione delle sovvenzioni pubbliche: senza di esse sarebbe più costosa di quella tradizionale”.
Sovvenzioni pubbliche, cioè centinaia di milioni di euro che finiscono nelle tasche dei gestori degli impianti, sotto forma di incentivi alla produzione di energia elettrica. Le modalità di finanziamento sono due: il pagamento maggiorato per otto anni dell’elettricità prodotta (incentivi Cip6), oppure il pagamento dei cosiddetti ‘certificati verdi’ che il gestore dell’impianto può rivendere nei successivi dodici anni.
Nel primo caso, sulla base della Circolare n. 6/1992 del Comitato interministeriale prezzi, chi gestisce l’inceneritore, per otto anni dalla sua costruzione, può vendere al GSE (la società a cui è affidato il compito di assicurare la fornitura di energia elettrica nel nostro Paese) la propria produzione elettrica a un costo triplo rispetto a chi produce elettricità usando metano, petrolio o carbone. I costi degli incentivi ricadono però sulla bolletta degli utenti, che comprende una tassa per il sostegno delle fonti rinnovabili. In pratica, si chiede al cittadino di pagare di più perché si tratta – e questo è un altro ossimoro – di energia pulita. Per esempio la società ASM spa, che gestisce il tanto osannato inceneritore di Brescia, ha ricevuto nel 2006 contributi per oltre 71 milioni di euro, tutti pagati dai consumatori finali.
I certificati verdi invece corrispondono a una certa quantità di emissioni di CO2: se un impianto produce energia da fonti rinnovabili emettendo meno CO2 rispetto a un impianto alimentato da fonti fossili, il gestore ottiene dei certificati verdi rivendibili a quelle industrie o attività le quali, sebbene obbligate per legge a produrre una quota di energia mediante fonti rinnovabili, non lo fanno in maniera autonoma.
Chi guadagna dunque da un inceneritore? Chi lo costruisce, chi lo gestisce, e tutte le aziende che comprano coi certificati la possibilità di aggirare la norma dello Stato che le obbliga a ridurre la propria emissione di inquinanti.
Chi ci perde? L’ambiente e i cittadini, spolpati da un Robin Hood all’opposto, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Nel nostro Paese di grandi industriali attaccati alla mammella dello Stato, entrano le sovvenzioni, esce l’economia. Trasi munnezza, esce oro.
Come è chiaro, il gioco funziona se i rifiuti vengono considerati fonte rinnovabile. L’Italia li considera tali, ma qualcuno si è messo di traverso. Secondo la normativa europea, solo la parte organica dei rifiuti può essere considerata rinnovabile (il cosiddetto umido), mentre la parte restante non è altro che materiale da smaltimento, per il quale è esclusa esplicitamente la valenza di recupero.
Pertanto, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia per gli incentivi dati dal governo per produrre energia bruciando rifiuti inorganici, considerati dal nostro ordinamento (ingenuamente? colposamente? dolosamente?) ‘fonte rinnovabile’. Ecco le affermazioni testuali del Commissario all’energia: “La Commissione conferma che, ai sensi dell’articolo 2, lettera b, della Direttiva 2001/77/CE del 27 settembre 2001 sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la frazione non biodegradabile dei rifiuti non può essere considerata fonte di energia rinnovabile”. Il fatto che nell’atto di recepimento della (chiarissima) direttiva comunitaria, la legge italiana includa i rifiuti fra le fonti ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, rende l’infrazione certa e palese.
Tuttavia senza incentivi, principale fonte di guadagno delle società di gestione, gli inceneritori smettono di essere remunerativi: prova ne sia l’intensa attività di pressione esercitata sul Parlamento affinché essi non vengano cancellati dalle varie leggi finanziarie. Per eliminare l’infrazione alle norme europee le recenti disposizioni hanno escluso dagli incentivi tutte le fonti assimilate a quelle rinnovabili, ivi compresi i rifiuti, ma hanno concesso deroga “agli impianti realizzati e operativi”. Sono inoltre previste delle eccezioni per gli impianti già autorizzati, ma non ancora operativi, con priorità a quelli in realizzazione. L’eterna emergenza campana non merita forse un’eccezione?
Il caso Campania
Nell’estate 1997 il governatore della Campania e commissario speciale ai rifiuti, Antonio Rastrelli, candidato di Alleanza Nazionale (ma lui si definisce fascista) eletto due anni prima per la lista del Polo delle Libertà, vara finalmente il Piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti. Il piano prevede: il trattamento dei rifiuti ingombranti; un adeguato sistema di trasporti; la separazione, grazie alla raccolta differenziata, delle frazioni nobili da quelle umide e piazzole per lo stoccaggio temporaneo. “In teoria – afferma Antonello Caporale nel suo Impuniti (Baldini Castaldi Dalai Editore, 2007) – un ciclo virtuoso che dovrebbe portare addirittura alla scomparsa delle discariche, considerato che dei rifiuti non si dovrebbe buttare niente, fra la trasformazione in concime e la produzione di energia. Fiore all’occhiello del piano sono infatti la costruzione di sette impianti di CDR (combustibile da rifiuti) e due inceneritori con recupero energetico”. I CDR dovrebbero produrre le ecoballe da inviare ai termovalorizzatori.
Rastrelli fa appena in tempo ad avviare il bando per l’aggiudicazione dell’intero servizio di smaltimento, realizzazione delle strutture compresa, che viene ribaltato dai mastelliani passati al centro-sinistra. La procedura utilizzata per la gara sarà quella della licitazione privata, e pertanto vi potranno partecipare soltanto le imprese invitate dall’Amministrazione, ossia gli amici. Presidente della Regione diventa l’ex Dc Andrea Losco e il mega-appalto viene vinto dalla Fibe-Fisia che fa capo all’Impregilo, l’azienda italiana leader nelle costruzioni controllata da Cesare Romiti (quello della Fiat, a proposito di amici) e dai suoi figli. A essere decisivo non è solo il prezzo, il più basso per ogni chilo di rifiuti: 83 lire contro le 110 richieste dalla cordata rivale guidata dall’Enel, che pure riporta i punteggi più alti quanto alle caratteristiche tecniche e al valore dell’opera, ma anche i tempi di messa in esercizio degli impianti: 300 giorni contro 395. Con la scusa dello stato di emergenza, infatti, “l’aggiudicazione avviene tenendo conto soprattutto delle tempistiche di realizzazione tralasciando valutazioni di carattere scientifico e rinunciando a ogni previsione di impatto ambientale” (Beni Trezza in La guerra dei rifiuti, Edizioni Alegre 2007).
L’investimento iniziale è previsto in 670 milioni di euro e inoltre, per perseguire l’obiettivo di raccolta differenziata previsto dal piano, nel 1999 viene avviato l’impiego a tempo determinato nei consorzi di bacino di lavoratori socialmente utili (i disoccupati campani arriveranno a versare fino a otto milioni di lire per essere inseriti nelle liste dei consorzi), sulla base di un progetto presentato da Italia Lavoro spa – agenzia del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, del ministero della Solidarietà sociale e delle altre amministrazioni centrali dello Stato – per la promozione e la gestione di azioni nel campo delle politiche del lavoro, dell’occupazione e dell’inclusione sociale. Oggi il numero dei lavoratori risulta essere superiore a 2.400 e il loro utilizzo trasformato a tempo indeterminato con una ordinanza commissariale del 2001, a fronte di percentuali di raccolta differenziata del tutto irrisorie (intorno al 10%) rispetto al costo sostenuto: più di 60 milioni di euro all’anno solo per le retribuzioni.
Nel 2000 viene eletto Bassolino, e anche lui assomma alla carica ordinaria di presidente della Regione quella straordinaria di commissario ai rifiuti. I siti individuati per la costruzione degli impianti di CDR sono Caivano, Tufino e Giugliano (Napoli), Battipaglia (Salerno), Pianodardine (Avellino), Casalduni (Benevento) e Santa Maria Capua Vetere (Caserta), fra le proteste delle popolazioni coinvolte, giustamente allarmate dalle proiezioni di impatto ambientale: inquinamento e malattie mortali in ulteriore aumento.
I ritardi cominciano ad accumularsi, in parte per i problemi di localizzazione ma soprattutto perché i tempi indicati in appalto sono di un’inconsistenza risibile. L’implosione causata dal mancato rispetto delle previsioni sfocia nel 2001 in quella che è stata considerata la prima ‘emergenza nell’emergenza’: nelle discariche operanti finisce lo spazio disponibile perché i volumi sono saturi. Per permettere all’Impregilo di andare avanti col piano è necessario l’intervento del commissario Bassolino, il quale dà ordine di riattivare diversi siti, alcuni da tempo esauriti o chiusi dall’autorità giudiziaria per la loro pericolosità, creando così le condizioni del disastro ambientale. Intanto si procede al reperimento di nuove aree di stoccaggio, anche provvisorio, in cui i rifiuti possono essere ammessi tal quali, senza il rispetto di alcuna minima norma di sicurezza.
I cittadini campani assistono sconvolti allo spettacolo della disperata ricerca di buchi in cui rovesciare schifezze più o meno tossiche, mentre le autorità fingono di ignorare come fra i ‘possessori di buchi’ un posto in prima fila sia riservato ad aziende di proprietà della Camorra. In Campania, infatti, il monopolio delle costruzioni fa capo alle attività dei clan e per le costruzioni c’è bisogno di sabbia, e per la sabbia di cave. Quando queste si esauriscono, si trasformano in eccellenti siti di stoccaggio, che possono essere venduti a peso d’oro e senza troppi controlli grazie alla pressione emergenziale. Altre cave dismesse o terreni abbandonati verranno acquistati da parte di prestanome dei boss e rivenduti nello stesso giorno alla Impregilo, con atti stipulati dal medesimo notaio, a prezzi maggiorati fino a cinque volte. Di nuovo, trasi munnezza, esce oro.
Nel frattempo, i lavori di costruzione dei CDR e quelli dei due termovalorizzatori sono completamente sfasati: ad Acerra, dove sarebbero dovuti terminare nel 2008, sono stati completati solo a giugno 2009, mentre a Santa Maria la Fossa non sono ancora iniziati. Per di più, a causa del completo fallimento della raccolta differenziata, gli impianti di CDR lavorano come peggio non si potrebbe. Rileva una delle relazioni delle inchieste parlamentari: “Il CDR prodotto non risponde ai requisiti richiesti: fra le molte anomalie sono state rinvenute percentuali di arsenico superiori ai limiti imposti, oltre che a oggetti interi, a esempio una ruota completa di cerchione e pneumatico. Il cosiddetto CDR analizzato è pertanto da definirsi semplicemente rifiuto solido urbano tal quale”. Quindi, come nota giustamente Antonello Caporale, le ecoballe prodotte non hanno niente di eco, sono balle e basta. In compenso, dal 1994 al 2004 le somme impegnate dal commissariato ammontano a quasi 900 milioni di euro, a cui va aggiunto il costo dei lavoratori socialmente utili, 145 milioni di euro.
Non sono le uniche cifre del collasso. L’inadempimento da parte di Impregilo degli obblighi contrattuali, certificato nel 2005 (commissario Catenacci), ha portato alla formale risoluzione del contratto, sancito dal dl n.245/05 e convertito in legge il 27 gennaio 2006. Il 31 luglio 2007 la procura della Repubblica di Napoli ha chiesto il rinvio a giudizio di Antonio Bassolino, commissario straordinario per l’emergenza rifiuti dal maggio 2000 al febbraio 2004, di Piergiorgio e Paolo Romiti, e di altre 25 persone fra pubblici funzionari e dirigenti Impregilo. I reati ipotizzati dai pm partenopei sono truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato e frode in pubbliche forniture. Ad aprile 2009 una nuova inchiesta denominata ‘Rompiballe’ travolge Guido Bertolaso e il suo braccio destro nell’emergenza rifiuti, Marta Di Gennaro, insieme ad altre 24 persone, tutti indagati per traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa ai danni dello Stato.
Dal nord al sud, il lucroso ciclo dei rifiuti
I rifiuti sono un enorme business, e ci guadagnano tutti: sono una risorsa per le imprese, per la politica, per la Camorra, una risorsa pagata maciullando i corpi e avvelenando le terre. Ci si ostina a considerare il dato emergenziale come un problema locale, quando sarebbe sufficiente valutarlo con attenzione per risalire in dimensione, da regionale a nazionale, da nazionale a internazionale. Certo, su nessun manuale di economia si parla della criminalità organizzata come di un gruppo di imprenditori modello, necessari al buon funzionamento del Sistema, ma la realtà è questa.
Lo smaltimento è un costo che nessuna azienda sente come necessario, sebbene i rifiuti rappresentino sempre il sottoprodotto, molto spesso gravemente tossico, della fabbricazione di beni. La figura che i clan camorristici si sono inventati per gestire questa miniera d’oro è quella dellostakeholder, ossia del mediatore. Laureati, bella presenza, si diventa mediatori dopo qualche anno passato in Usa o in Inghilterra a specializzarsi in politiche dell’ambiente, per imparare come si trattano i rifiuti tossici, come aggirare le norme, come avvicinare la comunità imprenditoriale con scorciatoie clandestine. Gli stakeholder campani si presentano quindi dai proprietari delle imprese chimiche, delle concerie, delle fabbriche di plastica di tutto il Paese e propongono il loro listino prezzi. A differenza dei mediatori legali, sono in grado di offrire un servizio tutto incluso (trasporto compreso), e per di più a prezzi bassissimi: il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici varia da 21 a 62 centesimi al chilo, e i clan forniscono lo stesso servizio a 9 o 10 centesimi al chilo. Per esempio, questi individui sono riusciti nel 2004 a garantire che 800 tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, di proprietà di un’azienda chimica, fossero trattate a 25 centesimi al chilo, con un risparmio dell’80% sui prezzi ordinari.
Unendo tutti i dati emersi dalle inchieste condotte dalla procura di Napoli e da quella di Santa Maria Capua Vetere dalla fine degli anni ’90 al 2007, è possibile quantificare il vantaggio economico per le imprese che si sono rivolte alla Camorra in 500 milioni di euro. Ma, poiché le inchieste giudiziarie hanno scoperto solo una percentuale parziale delle infrazioni, ne deriva che moltissime aziende del nord Italia sono riuscite a crescere, ad assumere, a rendere competitivo l’intero sistema industriale del Paese al punto da poterlo spingere in Europa, anche grazie ai vantaggi di costo assicurati dall’intervento della criminalità organizzata. L’operazione Cassiopea del 2003 ha dimostrato che ogni settimana partivano dalle regioni del nord quaranta tir ricolmi di rifiuti – cadmio, zinco, scarti di vernici, fanghi da depuratori, plastiche, arsenico, piombo – che venivano sversati o interrati nel territorio campano, trasformandolo in un’unica, enorme discarica. Si stima che negli ultimi cinque anni in Campania siano stati smaltiti illegalmente circa tre milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui un milione nella sola provincia di Caserta.
Ma le cose non funzionano così solo in Italia: gli stakeholder cinesi, allievi dei clan nostrani, hanno imparato a trattare con le aziende europee, sempre a caccia di nuovi modi per migliorare la propria competitività, e propongono loro prezzi e soluzioni efficaci. A Rotterdam la polizia portuale olandese ha scoperto nel 2005, in partenza per la Cina, mille tonnellate di rifiuti urbani inglesi spacciati per carta da riciclare. Un milione di tonnellate di rifiuti high tech partono ogni anno dall’Europa e vengono sversati nella provincia di Hong Kong, intombati, stipati sottoterra, affondati nei laghi artificiali. Come nel casertano. Per non parlare delle cosiddette ‘navi dei rifiuti’ gestite dalla ‘ndrangheta, di cui ancora poco sappiamo se non che ce le troviamo in fondo ai nostri mari, da chissà quanti anni. Mentre nuovi territori da convertire a discarica sono quelli delle vie del narcotraffico, Albania e Costarica, ma anche Romania, Mozambico, Somalia e Nigeria. Da Milano a Napoli, da Londra a Guiyu, trasi munnezza, esce oro.
La Camorra sembra chiami se stessa “il sistema”. Così imprese, politici, stakeholder non lavorano per i clan, ma per il sistema. Questo non è un paradosso, quando si comincia a intravedere che non esistono due entità distinte, una illegale al sud e una legale al nord, ma due organismi profondamente interrelati, che hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere: dal sistema al Sistema. La chiamata di Gianni De Gennaro prima, e di Guido Bertolaso poi, a commissari straordinari, appare a questo punto assolutamente in linea con la più abietta continuità: l’emergenza campana va risolta senza compromettere l’ordine pubblico. L’ordine che prima degli interessi dei cittadini serve gli interessi dell’economia, legale e illegale, e della politica sua ancella. Prova ne sia la natura del mandato che ha permesso loro di agire anche in deroga alle leggi sulla salute e sull’ambiente: gli interessi di chi fa affari sono gli unici beni da difendere, e se i bambini nascono malformati, le banconote no.
di Giovanna Baer
26 maggio 2010

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